Da People a Berlusconi, la stampa nella morsa della Tv. Riflessioni dopo la cronaca in internet su Jaycee Dugard

di Marco Benedetto
Pubblicato il 15 Ottobre 2009 - 12:00| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Un esempio che dovrebbe fare riflettere chi si occupa dei problemi dell’editoria oggi viene dal sito internet del Corriere della Sera.

Riporta una storia che ha impressionato il mondo, quella di Jaycee Dugard, rapita da un maniaco 18 anni fa, quando ne aveva 11 e da lui tenuta prigioniera in casa per tutto questo tempo, tempo in cui tra l’altro ha messo al mondo due figli, oggi di 15 e 11 anni, il tutto senza che nessuno se ne accorgesse.

Oggi torna d’attualità perché la rivista popolare americana People ha fotografato Jaycee e ha pubblicato un lungo articolo, che ora sta lanciando, sia attraverso il suo sito internet sia con un intenso battage sulle televisioni di tutta l’America. Detto per inciso, quelli di People, che fa parte del gruppo Time Warner, sono maestri in questo genere di operazioni. In pieno agosto, tirarono fuori la storia della omosessualità di George Clooney: sul loro sito c’erano un pezzetto stile blog, sul web, invece, eravamo tutti impazziti già una settimana prima che la rivista uscisse in America. Nulla da dire: i loro milioni di copie li meritano tutti.

La storia di Jaycee Dugard è di quelle che prendono. Lo si vede anche dal numero di lettori che attira sul nostro piccolo sitarello. Giustamente la corrispondente del Corriere della Sera da New York ne scrive e correttamente attribuisce a People notizia e foto.

Ora ditemi: perché dovrei pagare per leggere la notizia scritta, in modo senza dubbio eccellente, dalla signora Farkas? Mi collego con il sito di People e ne so altrettanto, magari con l’aiuto del traduttore di Google, che non è il massimo, ma basta. E allora? Perché questa lunga tiritera sul People e il Corriere?

Certamente, alla maggioranza dei lettori il tema apparirà come molto poco appassionante e senza dubbio

Jaycee Dugard sulla copertina di People

è, almeno in apparenza, per addetti ai lavori. Tuttavia, faccio una cosa contraria alla mia convinzione che le cose di bottega dei giornalisti quando sono messe in piazza hanno un effetto negativo sul loro indice di gradimento presso il pubblico, e ne parlo.

Ne parlo perché al fondo si profila un tema di libertà di informazione e di manifestazione del pensiero che può interessare tutti i cittadini, non solo i giornalisti e non solo i lettori, ma i cittadini che sono lettori e sono anche giornalisti (non in senso professionale o categoriale, ma in senso di gente che non vuole delegare ad altri la rappresentazione delle proprie idee).

Perché il Corriere? Perché sull’onda della fobia che ha preso un po’ di editori di quotidiani di giornali in giro per il mondo, il Corriere della Sera scrive ora, in fondo ad ogni suo articolo, sia sull’edizione stampata sia su quella on line, due magiche parole: “Riproduzione riservata”. La mossa è corretta, ancorché tardiva: per anni le radio e le tv private italiane hanno saccheggiato i giornali di notizie, non solo quelle nazionali e internazionali, che sono facilmente reperibili in natura, ma soprattutto di quelle locali; e continuano a farlo.

Lo scandalo maggiore è rappresentato dalle rassegne stampa: quante ne circolano in un ministero, in una grande azienda con migliaia di dipendenti? Migliaia di fotocopie per una copia di giornale. Basta andare sul sito della Presidenza del Consiglio e trovare i più importanti articoli dei più importanti giornali italiani riprodotti pari pari: una copia, migliaia di utenti.

Anni fa la Federazione degli editori e la stessa Presidenza del Consiglio misero a punto una norma riparatrice, che prevedeva una tassa alle fotocopie, i cui proventi sarebbero stati poi gestiti dalla Siae e distribuiti tra gli aventi diritto. La norma fu bloccata in Parlamento da oscure manovre di frange potenti dentro i ds. Giuseppe Giulietti, che era a favore della norma e dovette subire l’umiliazione, dovrebbe ricordare, come dovrebbero anche ricordare Mauro Masi, oggi dg Rai e all’epoca capo del dipartimento informazione della Presidenza e Sebastiano Sortino, oggi all’Autorità per le comunicazioni e allora direttore della Fieg. Ci fu poi un altro tentativo di Riccardo Levi, succeduto a Masi al dipartimento, nel nobile e vano scopo di fare riaprire le trattative del contratto dei giornalisti: voleva trovare dei soldi non dalle tasche del settore da mettere sul piatto della trattativa. Ma le frange estremiste del sindacato fecero naufragare l’iniziativa prima ancora che avesse inizio il litigio sui criteri di ripartizione.

Sembrano tutte cose di bottega, ma credo che per una volta meritino di essere portate alla attenzione di quella esigua quanto scelta minoranza che legge queste note. Non c’è dubbio che non si può lasciare solo al mercato il compito di regolare ogni cosa.

L’esperienza delle grandi istituzioni finanziarie anglo-sassoni l’abbiamo patita e la stiamo patendo tutti sulla nostra pelle: il mercato può essere devastante. E quando si tocca il tema della libertà di informazione, anche il paese dove il mercato è dogma, gli Stati Uniti, pensa a forme di aiuto per l’editoria.

L’errore è quello di volere affrontare la crisi in stato di panico, guardando solo all’ultima e più modesta causa, dopo anni di lassismo verso il saccheggio delle notizie fatto dalla tv.

E verso il saccheggio della pubblicità, da parte di Mediaset e di Sky, durato anni, mai contrastato, anzi, con la piena complicità dei politici: non solo, come ovvio, il partito di Berlusconi, ma anche, e questo è molto più grave e preoccupante, da parte degli ex ds. Remember D‘Alema?