Fiat, sindacati, politica industriale: che ognuno faccia il suo

di Marco Benedetto
Pubblicato il 25 Novembre 2009 - 10:40| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Lo storico Valerio Castronovo racconta che anche Mussolini voleva gli stabilimenti Fiat sparsi per l'Italia

La Fiat sostiene, con molte ragioni, che ha troppi stabilimenti.

Uno di questi si trova a Termini Imerese, in Sicilia e l’annuncio della Fiat ha provocato proteste intense. Anche il ministro dell’industria, Claudio Scajola, ha detto che non è giusto.

Non era giusto nemmeno aprirlo, dal punto di vista industriale, tanti anni fa: che senso ha una fabbrica lontana dal baricentro del mercato e dei fornitori? All’epoca prevalse la vecchia logica industrial politica, il mito del sud industrializzato innestato sulla strategia di Mussolini, contrario alla mega concentrazione operaia di Mirafiori e favorevole a sparpagliare gli stabilimenti Fiat in tutta Italia (Castronovo, “Giovanni Agnelli”).

La scelta, negli anni democristiani, fu favorita dai contributi che, all’epoca, lambivano anche la periferia sud di Roma e che la resero probabilmente indifferente se non più conveniente di Chivasso.

Ora, con la Comunità europea che vigila e Tremonti che taglia e comunque non paga, Termini Imerese, come altri stabilimenti che non rispondevano a logica industriale ma sociale, non ha più senso. Si entra così nel capitolo rapporti tra Fiat, Governo nazionale e europeo: quella di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat, così come per Scajola, potrebbe essere solo una sceneggiata per ottenere fondi pubblici, mentre la vicenda Opel ha dimostrato che a casa propria anche i liberisti più estremi, come Angela Merkel, quando sentono odor di voti, dimenticano i principi e contano i soldi dei sussidi.

Vedremo come finirà.

Quel che invece sembra di dovere già constatare, dolorosamente, è l’assenza del sindacato, quello italiano naturalmente, tutte e tre le sigle unite nel silenzio. Ormai fanno tutti grande politica, vanno ai dibattiti in tv, se quei poveri metalmeccanici alzano la testa sono tutti pronti, sindacati romani e giornali, a coprirli di contumelie. Gli operai non vanno più in paradiso e i borghesi che costituiscono l’establishment di sinistra si sono liberati con sollievo dell’abbraccio di quella gente così lontana da loro per indirizzo di nascita, studi, aspirazioni, cultura. Alla ex classe operaia ci pensa la Lega, gente che, orrore, si fa vedere in canottiera, e magari quelli dell’ex An, che hanno anche un sindacato sempre più attivo e ormai ammesso in società.

C’è da dire che si tratta di un fatto molto italiano e proprio le vicende che nei mesi scorsi hanno visto la Fiat protagonista lo dimostrano.

Primo episodio, la Chrysler. I sindacati americani hanno fatto il loro mestiere: hanno trattato al meglio, hanno resistito al massimo. Gli italiani? Invece di preoccuparsi delle conseguenze di un fallimento dell’avventura americana (la Mercedes, non De Tomaso, ci ha lasciato più di dieci miliardi di dollari) sui lavoratori italiani, sono volati a Detroit per tranquillizzare i colleghi sindacalisti americani che la vecchia “feroce” (così fino a pochi anni fa chiamavano la Fiat dalle parti di Mirafiori) si era ormai ammansita e che Marchionne era proprio un gran bravo ragazzo. I tre capi delle tre sigle, in quei giorni, facevano il balletto davanti alla tv dandosi la mano intrecciati come nelle feste tirolesi, festeggiando il primo maggio all’Aquila, cui va tutto il rispetto per la ferita del terremoto ma che non risulta essere una delle zone d’Italia a più alta intensità industriale. Cera c’era Berlusconi: a maggior ragione sarebbero dovuti andare da un’altra parte.

Secondo episodio, la Opel. Anche in questo caso, come se la cosa non li riguardasse, i sindacati italiani sono stati zitti. Solo Guglielmo Epifani, in alcune occasioni, ha alzato la voce, solitario come un muezzin nel deserto. Unica eco, quella di Scajola, che da vecchio democristiano di una regione, la Liguria, una volta a alta densità operaia, conosce gli effetti dolorosi delle ristrutturazioni: l’acquisizione della Opel da parte della Fiat, molto giusta dal punto di vista industriale, qualche conseguenza per i lavoratori l’avrebbe comportata di certo. Andava fatta: ma parlarne un po’ prima non sarebbe stato male. Non chiedetevi perché alle prossime elezioni gli operai voteranno Lega.

Intanto i tedeschi alzavano le barricate, dicevano a chiare lettere che loro proprio la Fiat non la volevano e inducevano la pragmatica Merkel a una scelta talmente sbagliata che non si è mai realizzata.Alla fine, la beffa per i tedeschi: Gm, i cui conti nel frattempo sono migliorati, ha rinunciato a vendere Opel e ha detto che ristrutturerà in proprio: alla fine i lavoratori tedeschi pagheranno l’intero prezzo (a meno di sussidi che comunque pagheranno i contribuenti) e si sarà persa l’occasione di mettere assieme una casa automobilistica europea competitiva.

La morale di questa storiella: quando le parti di un sistema non svolgono in modo appropriato la loro funzione, il male viene a tutti; i sindacati tedeschi hanno fatto troppo i politici dettando la linea al governo, quelli italiani hanno fatto troppo i politici, inseguendo Berlusconi nel mestiere in cui è imbattibile, quello del virtuale televisivo e hanno fatto troppo poco i sindacati; alla fine pagheranno i lavoratori.

Le conseguenze elettorali di tutto questo le peseremo a primavera.