Tutti precari tutti occupati. Lo Stato garantisca i deboli, non le imprese

di Marco Benedetto
Pubblicato il 15 Marzo 2014 - 14:43| Aggiornato il 17 Marzo 2014 OLTRE 6 MESI FA
Lavoro e occupazione: tutti precari. Ma con lo Stato garante, non le imprese

Marco Benedetto: tutti precari e tutti tutelati

Lavoro, precarietà, occupazione, garanzie, cuneo fiscale, cassa integrazione, cassa in deroga: un turbine di parole e slogan che aumentano la confusione, parole d’ordine che non servono a nulla fino a quando non si uscirà dal corto circuito che inganna tutti e aggrava i problemi. Il grande gioco delle tre carte di Matteo Renzi lo prova.

Il corto circuito è tra le garanzie, che chi ha un lavoro ha diritto a chiedere e il sindacato che lo rappresenta chiede, e le aziende, su cui tutto si scarica.

Negli anni ’70 erano arrivati a tenere in piedi aziende decotte e questo andava bene a tutti, perché attorno a quelle aziende costruivano enti tanto inutili quanto costosi, di sprechi e ruberie.

Oggi parlare di “flessibilità” non è più un delitto, anche se non è giusto che a pagare siano solo i lavoratori e, in parte, i dirigenti.  I padroni, quelli veri, trovano quasi sempre il modo di cavarsela. Sono pochi quelli che compiono suicidio, per disperazione o vergogna. Ci sono casi clamorosi anche di questi giorni a dimostrare che la legge dura del capitalismo spietato e del mercato supremo regolatore non si applica sempre e non è proprio uguale per tutti.

Ma la vita di una azienda deve essere considerata come un bene a se stante, da preservare, in salute, fino a quando è possibile, sopra gli interessi dei padroni e dei dipendenti, nell’interesse dei padroni e dei dipendenti.

La vita dell’azienda deve prevalere sugli interessi individuali dei lavoratori, nel loro interesse più complessivo. Considerare però  i lavoratori spendibili e sacrificabili  senza remore urta quel minimo di decenza che dovrebbe restare al fondo anche del più spietato capitalista e contrasta contro il buon senso. Tante volte, con un po’ di applicazione e di buona volontà, si possono far convergere interessi in apparenza inconciliabili.

Deve entrare però nel gioco un terzo giocatore, lo Stato. È lo Stato che deve farsi carico di un complesso di garanzie, la cui osservanza non può essere scaricata sulle aziende e la cui difesa non può essere lasciata solo al Sindacato, perché sono in causa varie e contrastate esigenze: quella dei giovani a entrare, degli anziani a non essere buttati via, dell’impresa a sopravvivere, del sindacato a vigilare contro i soprusi e i regolamenti di conto individuali.

Se non si apre su questo fronte, a poco servirà la riduzione del costo del lavoro per favorire le assunzioni. Un’azienda difficilmente assumerà perché in quel momento il costo del lavoro costa qualche punto di meno o perché la prova invece che qualche mese dura qualche anno. La prova deve durare tutta la vita di lavoro, lo Stato deve tutelare le deroghe, le cui cause possono essere tante e legittime.

Sembra il momento di fare marcia indietro, rispetto alla evoluzione degli anni ’70, quando le aziende venivano caricate di doveri sociali cui lo Stato non intendeva provvedere, con la conseguenza di creare due classi di cittadini e di lavoratori, i più garantiti, sempre più garantiti, e gli altri.

Certo, uno Stato come quello italiano che si rimangia le sue leggi, a cominciare da quelle sulle pensioni, non è credibile, è un gradino sotto il congelamento dei Bot. Così come i giochetti di parole di Renzi sono trucchetti da televendita di cui non ci si può tanto fidare.

Oggi il cuneo fiscale è ridotto, domani non lo sarà più, lo avevano già ridotto, poi lo hanno riallargato. Ma le assunzioni, per chi le ha fatte con quella motivazione, sono rimaste per sempre.

Non serve a molto il prolungamento del periodo di prova. Nel rapporto di lavoro entrano in gioco non solo la capacità, ma anche la stanchezza, il disamore, non sono i giovani a dovere essere mandati via, ma i vecchi, che non ne hanno più voglia, che si sentono in credito, perché alla fine si convincono di avere dato all’azienda più di quanto la retribuzione abbia compensato.

Vogliamo avere il coraggio di rompere un tabù? Guardiamo bene la principale differenza tra l’Italia e il resto del mondo e concludiamo: dobbiamo diventare tutti precari, non come vorrebbe, ormai sempre più isolata, Susanna Camusso, rendere tutti garantiti.

Nello stesso momento ci devono essere reti di protezione per i più deboli, i più anziani, anche i più fannulloni, ma non devono ricadere sulle aziende, devono essere a carico della fiscalità generale e quindi dello Stato.

Nessuno è perfetto e certamente a questa affermazione tanto estrema si potrà obiettare con una casistica infinita di eccezioni. Persino in  America, dove ti possono licenziare senza ragione o perché non gli piace la tua faccia, non lo possono fare se la ragione è che sei vecchio, retaggio del vecchio reazionario ma sempre sindacalista Ronald Reagan.

Il problema però va affrontato, altrimenti succedono due cose, possibilmente anche contemporaneamente: che fanno qualche porcata ancor più grossa, che dei più deboli fanno carne di porco.

Attaccarsi come un disco rotto a slogan ormai superati come fa Susanna Camusso non porta distante. La categoria più grossa della Cgil sono i pensionati, hanno lasciato massacrare, con un fondo di gioia e di regolamento di conti verso i loro ex capi, le pensioni più elevate, senza chiedersi se fosse giusto, se fosse legale, se non venisse compromessa la credibilità dello Stato medesimo, e ora si trovano l’assalto ai piani più bassi, a pensioni da operai qualificati, a milioni di persone che hanno accettato i contributi figurativi perché garantiti dallo Stato e anche dal Sindacato.

Ora fanno muro attorno al posto sicuro, invece di pensare a nuovi schemi, a una ricontrattazione complessiva del rapporto del lavoro, dalla quale non deve e non può essere escluso lo Stato, perché il nostro sistema socialista diventi un sistema adeguato alla evoluzione dei tempi.

E così creano solo le condizioni da day after e da grande fuga.