A Fini piacerebbe il posto di Berlusconi, ma con che voti? Bersani attento, non dimenticare il passato, politica non è solo opportunismo

Pubblicato il 23 Ottobre 2010 - 19:39 OLTRE 6 MESI FA

Remember Fini

A pensarci bene, pochi vorrebbero trovarsi nei panni del segretario del Pd, oggi Pier Luigi Bersani. Solo dei samaritani e anime pie come appunto lo stesso Bersani. Al di là delle cannonate che ogni tanto gli escono dalla bocca, Bersani, che non è privo di quel buonsenso sano dei piacentini, anche se non ha poi la determinazione e la capacità di conclusione del suo più illustre concittadino Giorgio Armani, sa bene di trovarsi in un passaggio strettissimo dalle cui pareti escono acuminati coltelli.

I coltelli, sia ben chiaro, non sono quelli che può lanciargli l’inconsistente Walter Veltroni. I coltelli sono quelli rappresentati dalla responsabilità da statista che gli viene dall’essere a capo del secondo (primo?) partito italiano con due imperativi categoriciccui obbedire e che sono in qualche modo confliggenti: “mandare a casa” Silvio Berlusconi e non destabilizzare l’Italia.

L’Italia ha bisogno di stabilità per una ragione decisiva, quella del suo debito internazionale trasformato in quella bomba a orologeria che sono i derivati e i cui interessi salgono ogni volta che si profila una crisi di governo al buio. L’operazione di sostituire Berlusconi deve essere di tipo chirurgico e l’ideale è che il bisturi lo porti l’elettorato, con un risultato chiaro e pulito.

Berlusconi, se mai aveva una valida ragione per entrarci, deve ormai lasciare palazzo Chigi, non perché, se uno è onesto e imparziale fino in fondo, si possa dire che i governi degli ultimi vent’anni non da lui guidati si siano particolarmente distinti, al di là dei vantaggi congiunturali. Non sono stati capaci della minima riforma (proprio Bersani resta scolpito nella memoria di chi scrive per lo scoutistico entusiasmo nell’assalto alla sclerosi degli ordini e per l’umiliante fallimento, esecutivo e politico, della sua velleitaria azione.

Berlusconi è arrivato in fondo per la sua debolezza intrinseca, l’eta, per l’incapacità dimostrata nell’affrontare qualsiasi crisi, dal terremoto all’Aquila ai rifiuti a Napoli, in un modo che non fosse uno sforzo di pr su uno scenario di carta pesta, per gli scandali che lo hanno schizzato di fango, per l’inadeguatezza a rappresentare l’Italia nei rapporti internazionali. La politica estera gli piace, per questo un ministro inconsistente come Franco  Frattini siede alla Farnesina, ma lui si è ormai trasformato in una macchietta presso i colleghi capi di stato e di governo in tutto il mondo. In inglese si dice “a figure of fun”, un personaggio da ridere. I colleghi internazionali di Berlusconi sono dei noiosissimi signori e (poche) signore: guardatene le foto e esprimete un pensiero solidale a Berlusconi.

Certo che è meglio Noemi della Merkel, ci vuole poco. Ma se quelli sono i capi degli altri paesi del mondo, o lo accetti o te ne stai a casa, non ci sono alternative, non puoi andare a farci coprire di ridicolo in tutto il mondo, sei ricco stai in villa non a palazzo Chigi. Appunto.

Il problema di Bersani è però che lui da solo non ce la fa, perché il suo partito è già un miracolo che esista, dopo la fine del comunismo dal cui ceppo è generato e dopo l’ibrido del Pd che ha voluto mettere assieme due anime del progressismo italiano che per mezzo secolo sono state agli antipodi nella visione di quel progresso: senza avventure contro rivoluzione.

Costretto a cercare alleati, Bersani non ha scelta facile. La regola che si estrae dai rari casi di vittoria della sinistra in modo democratico è che essa deve cercare voti al centro; così come le affermazioni della destra sono sempre avvenute su posizioni estreme: vedete Regan e Bush e non vi va di ricordare che Mussolini e ancor più Hitler andarono al governo sulla spinta di libere democratiche elezioni.

Ma a sinistra gli sta crescendo Vendola e al centro c’è l’elusivo Casini mente il Pd non sembra ancora evoluto o maturo al punto da elaborare una sua autonoma originale politica di centro, quale quella che ha portato i laburisti inglesi con Tony Blair, al governo dopo ripetuti smacchi delle posizioni massimaliste del partito. Quando Vendola dice con rammarico di non avere capito il Berlusconismo vengono i brividi perché viene da pensare che se l’avesse capito per tempo avrebbe pensato a misure interdittive estreme, perché non è pensabile che si sarebbe messo a scimmiottarlo in modo caaricaturale. Purtroppo è però difficile pensare anche che oggi come oggi un Vendola sia capace di proporre qualcosa capace di piacere ai potenziali elettori di Berlusconi.

Il rischio più grosso però Bersani lo corre guardando troppo a destra, al transfuga Gianfranco Fini, la cui storia, la cui persona e le cui vicende personali sono ben più inquietanti, agli occhi di un elettore di sinistra senza pregiudizi o paraocchi, di quelli che stufi di tutto e di tutto vanno sempre meno numerosi a votare,  di quanto non lo siano un orecchino o un gesticolare vagamente effemminato.

Prudentemente Bersani si è astenuto da mosse avventate. Però non si può fingere di non notare il processo di beatificazione di Fini in alcuni settori della sinistra, giornali in primis.

Ora è vero che Hitler per vincere le elezioni accettò anche l’alleanza con una parte dei cattolici, ma li univa una fede di estremismo reazionario anticomunista incrollalbile, c’erano degli elementi ideologici comuni. Ma ini non è Von Papen e, per nostra fortuna, Bersani non è Hitler e nemmeno Stalin.

Semplicemente fare ingoiare l’alleanza con un ex fascista all’elettorato di sinistra può presentare qualche difficoltà non trascurabile.