Paradosso italiano: milioni di stranieri che lavorano, milioni di nostri ragazzi precari o senza lavoro

di Marco Benedetto
Pubblicato il 19 Settembre 2010 - 22:34 OLTRE 6 MESI FA

L’Italia vive, come nessun altro paese occidentale, il paradosso di milioni di persone, cittadini italiani, che invocano un posto di lavoro, mentre milioni di persone, cittadini stranieri, lavorano qui da noi in posti che nessun italiano sembra volere, a condizioni e retribuzioni che nessun italiano sembra accettare e spesso poi molti di questi, con lavoro e sacrificio, diventano a loro volta padroni e ricchi.  Così hanno fatto in Inghilterra gli indiani espulsi dall’Africa negli anni ’70, così fanno molti romeni da noi.

Ma a tanti giovani italiani diventare ricchi non interessa, vogliono un posto, che gli consenta di fare le ferie pagati, stare assenti e pagati, non essere soggetti al capriccio di un padrone che non sa cosa sia una discoteca e alla fine, una decente pensione per aspettare la fine del viaggio in dignitoso conforto. Tutto qui.

Eppure, come possa essere soddisfatta una tanto legittima aspirazione è oggi molto difficile prevedere. Tutto porta al pessimismo. In mancanza di una prospettiva di crescita importante della grande industria, peraltro quasi del tutto estinta, l’unica possibilità di occupazione a posto fisso e garantito ormai anche più di un matrimonio può venire solo dal settore pubblico, ma la sensazione è che per un po’ di anni le risorse pubbliche siano già impegnate per altro e poco resti per sistemare i giovani italiani.

La nostra percezione è deformata dalla retorica opportunista dei politici e dalla rappresentazione semplificata che ne fanno i giornali e le tv. Per molti conta anche l’esperienza diretta, come giovani precari, o genitori o parenti o conoscenti, di casi che alimentano il nostro disagio.

I numeri a volte sono difficili da capire, perché si parla di milioni di giovani senza lavoro, che si aggiungono ai milioni definiti precari, perché un lavoro ce l’hanno, ma a termine e ancora altri milioni che hanno un rapporto di lavoro non dipendente e quindi ancor meno tutelato.

I milioni si sommano ai milioni, ma l’aritmetica conta poco, perché quel che importa a ciascuno è la propria vicenda individuale, che diventa per noi paradigma assoluto.

Non serve ricordare che oggi viviamo in un’Italia decisamente migliore, dal punto di vista del benessere collettivo, di quella che fu solo vent’anni fa.

La, giusta, risposta è: ma noi viviamo oggi, questo ci avete promesso, scopriamo che ci avete illuso.

Un gioco irresponsabile dei partiti ha contribuito a illudere i giovani sul loro impossibile diritto collettivo generazionale, su sacrosanti diritti, come se ci fosse una prelazione etnica sui diritti ed è quindi più che legittimo che ci sia chi ci crede e voglia cogliere i frutti. Sarebbe invece onesto che chi continua a farlo, spesso con toni di falso moralismo, dicesse loro che là fuori è dura e più dura di quanto sembrasse, perché i loro genitori hanno vissuto meglio e si sono mangiati quasi tutto e che sarà così per il sogno di un posto e sarà anche così per le loro pensioni.

L’inganno confina con la crudeltà perché tutti continuano a parlare di riforme, ma le riforme che fanno sognare i giovani oggi sono probabilmente l’opposto di quel che hanno in mente politici e imprenditori in materia di stabilità del posto.

Come ci siamo arrivati? Soprattutto: come finirà?

Siamo arrivati all’Italia di oggi attraverso sessant’anni di trasformazione caotica, da contadini a operai, da figli di contadini e operai a impiegati e imprenditori, e in parallelo da analfabeti a laureati, con una prima fase di intensa, feroce accumulazione (ricostruzione e boom), seguita da una fase di redistribuzione di reddito (dall’ autunno caldo del 68 alla fine dei ’70), che all’inizio riguardò soprattutto i co-artefici di quella ricchezza, i lavoratori dell’industria.

Il valore del redistribuito però andò oltre quello dell’accumulato (i favolosi anni ’90), impegnando anche parte di quello futuro, perché la classe politica se ne servì per cercare consenso e voti in settori lontani dall’industria, dai dipendenti pubblici ai pensionati. Anche Berlusconi, in questi ultimi anni, non si è sottratto e quella del ritocco delle pensioni è probabilmente una delle poche promesse che abbia mantenuto.

C’è stato benessere per tutti, tra sussulti di bolle, boom e crisi in questi ultimi vent’anni iniziati con la caduta del muro di Berlino che ha reso in parte superfluo lo sforzo di tenere buoni gli italiani distribuendo le briciole di un banchetto che invece ingolosiva sempre di più chi partecipava alla spartizione dei fondi pubblici.

Il conto è arrivato al momento dell’euro ed era salato, perché il debito pubblico era sproporzionato. L’euro non si poteva eludere: sarebbe stata una catastrofe che ci avrebbe ributtato indietro di mezzo secolo almeno. In nostro soccorso vennero le ingegnose costruzioni dei tanto deprecati banchieri di Wall street, sotto forma di derivati che ci consentirono di entrare a pieno titolo nella valuta europea, trasformando parte dei debiti in quei mostruosi derivati che tanti guai hanno portato alla Grecia e minacciano un po’ tutti i paesi occidentali, ma vedono quelli mediterranei più esposti per l’intrinseca debolezza delle loro economie e dei loro patrimoni. E l’Italia è in cima alla lista, perché la nostra economia è la più grossa, ma il debito lo è anche, mentre le minacce di instabilità politica rendono nervosi i banchieri, specie di questi tempi.

Nel frattempo però, la massa di denaro messa in circolo ci ha trasformati da paese di emigranti in meta per i nuovi immigranti dall’est europeo, dall’Africa, dal Sud America, che guardano la tv e ci vedono ricchi perché abbiamo colf e badanti, automobili e telefonini e settimana bianca.

Così siamo arrivati al paradosso. In Italia lavorano, e lavorano sodo, milioni di stranieri, e abbiamo milioni di italiani disoccupati o in condizione di provvisorietà che non era nei patti.

Gli italiani non sono ambiziosi, non vogliono posti, sono pronti anche a lavori umili, però con tutte le garanzie e le protezioni, come giusto. Non fanno certi lavori che lasciano agli stranieri perché sono spesso sinonimo di sfruttamento, di condizioni dure e rischiose. Fanno però gli spazzini, anche turni pesanti, ma con le tutele, i guanti, i furgoni, i cassonetti e soprattutto il datore di lavoro municipale sul quale anche essi stessi, tramite voto, possono esercitare una certa influenza.

E qui veniamo al nodo che forse nemmeno una espansione economica da bolla anni ’90 potrà disfare, perché, per sistemare tutti, con un lavoro sicuro, garantito, che ormai ben difficilmente il settore privato potrà dare più, c’è solo il pubblico, stato, regioni, province.

Questa tra l’altro è stata la ricetta di Tony Blair, che ha inventato posti di lavoro di utilità sociale per collocare giovani altrimenti non collocabili, in un paese dove la grande industria praticamente non esiste, la finanza non può permettersi assistenzialismi e fa incetta di talenti stranieri mentre i nuovi lavori, nei servizi, sono gli stessi che da noi i ragazzi italiani lasciano a romeni e albanesi. Ma Blair, che partiva da una situazione ben più robusta della nostra, lo ha fatto anni fa, quando l’euforia da boom giustificava tutto.

Da noi, il federalismo di certo darà una mano, con la più acuta sensibilità degli amministratori locali ai bisogni della loro gente, ma il grosso dell’esercito dei senza lavoro è al Sud e gli enti pubblici meridionali più di tanto non potranno spendere perché chiunque andrà al governo nei prossimi anni sa già che i maggiori proventi del fisco sono già impegnati, come delle inesorabili cambiali, per restituire i soldi alle grandi banche internazionali i denari che ci hanno anticipato per farci entrare nell’euro. Non siamo la Grecia, però…comunque tempi duri ci aspettano.