Romeni che (ahinoi) vanno, romeni che (ahinoi) restano

Pubblicato il 26 Febbraio 2009 - 16:23| Aggiornato il 16 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Sul Messaggero.it di giovedì 26 febbraio una brutta notizia. Spaventati dall’aggressività degli italiani verso il loro gruppo etnico, sempre più numerosi sono i romeni che lasciano il nostro paese e tornano a casa loro.

Noi siamo gente che lavora, facciamo i lavori che gli italiani non vogliono fare, dicono. Non è esatto, perché nelle fasce più basse dei mestieri, gli italiani certi lavori li vorrebbero anche fare. Tutto sta a vedere come, quanto intensamente, a che prezzo.

Resta il fatto che,ad esempio, l’attività edilizia è uno di quei settori dove, lo sappiamo bene tutti per esperienza diretta, non si farebbero più case né ristrutturazioni, se non ci fossero i romeni.

Perché l’odio montante verso di loro? Sappiamo anche questo: perché sono cittadini romeni gli autori di quei delitti che fanno clamore: rapine, furti e recentemente stupri. Ha ben da dire il Viminale che gli stupratori romeni sono meno di un decimo del totale, comunque una percentuale superiore a quella dei romeni sul totale dei residenti. Quando l’autore di un crimine è un italiano,  come avviene nella maggior parte dei casi, la nazionalità delcolpevole non viene menzionata. Quando è straniero, la provenienza fa parte della notizia. In un’America sensibilizzata su questo temi, non è più possibile definire un criminale con la sua razza. Una volta, negli anni del nostro “miracolo”,  i giornali del  Nord Italia abbinavano l’etichetta di meridionale  al nome del reo, quando non era indigeno. Oggi non sarebbe più politicamente corretto, e poi dopo la grande mescolanza  di residenze, cognomi e accenti che c’è stata in Italia in questo mezzo secolo, sarebbe anche impossibile.

Lo è invece con gli stranieri. Il problema con i romeni è complicato da un particolare non di poco conto. Che una parte dei romeni non si identifica, non si sente solidale per nulla, per usare un eufemismo, con la parte cui maggiormente si possono ascrivere i crimini commessi in Italia, gli Zingari.

Il problema non è da poco, perché su di esso si proiettano le ombre dei genocidi dell’ultima guerra.  E viene il riflesso condizionato di cadere nell’odioso crimine del razzismo, bollando di zingari quei romeni, che zingari sono, che rubano in casa tua,  scippano le donne, borseggiano gli anziani, ti tormentano al parcheggio e soprattutto, con un crescendo che è anche mediatico, violentano le altrui donne.

Col risultato che, in ossequio al “politically correct”, i giornali, per non dare a nessuno dello zingaro (al massimo li chiamano nomadi, quando parlano dei loro campi dove sono parcheggiate ferrari e bmw), inglobano nel concetto “romeno” tutti quanti.

Niente di sconvolgente, perché è esattamente quello che fanno gli stranieri con noi. I mafiosi e i camorristi non sono di una regione  o di una città determinate, ma semplicemente italiani. E questo giustifica il tedesco  ubriaco a dare del mafioso al laborioso friulano o al ricco emiliano.

Come l’Italia è  arrivata a questo?  Il lassismo nel nostro paese è massimo, la certezza della pena di fatto non esiste nè per gli italiani nè per gli stranieri e questo ha attirato non a caso sul nostro territorio il 40% dei latitanti, rumeni o zingari che siano. Per gli zingari è stato più agevole venire da noi che andare in paesi dove la polizia è sostenuta da un sistema di leggi più   rigoroso che da noi, specie proprio per i non nazionali. Si aggiunga la carità cristiana, umanamente comprensibile,  in molti magistrati di fronte a tanti poveracci, e poi si capisce  la frustrazione delle forze dell’ordine, l’ultimo anello della catena, quelli che rischiano le coltellate  per mille euro al mese.

Risultato di tutto questo: la criminalità, specie la fastidiosa, diffusa microcriminalità che va dal borseggio all’accattonaggio molesto, aumenta, i romeni che lavorano se ne vanno. Gli zingari, chiamiamoli  col loro nome, restano. Ma noi facciamo fatica, se non addirittura proprio ci rifiutiamo di chiamare le cose con il loro nome: zingari, quando siamo in presenza di una cultura predatoria. E razzismo, quando una popolazione indigena impaurita dall’incertezza economica e sociale sente il bisogno di un nemico esterno e diverso cui attribuire ogni colpa. Così che oscilliamo tra il politicamente corretto, senza davvero condividerlo, e il razzismo praticato negando che esista.