Cosa significa oggi votare (o non votare)

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 13 Aprile 2012 - 19:47 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – In vista della nuova tornata elettorale (“solo” amministrativa, ma ormai la differenza rispetto alle ‘politiche’ ha perso gran parte del suo significato: anche questo un segno dei tempi), ci si interroga sulle scelte che ciascuno di noi è chiamato a fare.

Ci si accorge allora di quanto sia mutato negli anni il senso di quel gesto così privato e insieme pubblico, essenza stessa di una democrazia degna di questo nome. Già il solo fatto di interrogarsi implica un mutamento. In passato, era l’appartenenza a determinare il voto; non era consentito dubitare, nutrire incertezze: interrogarsi, appunto.

“Non ha votato” si annotava sul famigerato “certificato di buona condotta” come esplicito rimprovero , stigma o sanzione per quella che veniva considerata una manifestazione imbelle del rifiuto di schierarsi. Votare era considerato un’affermazione obbligatoria di identità, riconoscimento essenziale del nostro “appartenere” a qualcuno o a qualcosa, di una dimensione politica irrinunciabile che ci definiva ma anche costringeva. Oggi, sentiamo che tutto ci appartiene o dovrebbe appartenerci, mentre noi – ci piaccia oppure no – non vogliamo appartenere che a noi stessi e a nessun altro: si tratti del partito, del capo carismatico, di una fede o di un culto.

Nell’apprestarci a votare, oggi, ci interroghiamo ma – soprattutto – interroghiamo senza spirito reverenziale coloro che chiedono il nostro voto . Non ci riconosciamo più nei manifesti, negli slogan, negli spot elettorali. I comizi vanno deserti. Disincantati, diffidenti, a volte distratti, non ci sfiora neppure l’idea che quei messaggi e quei volti possano pretendere di rispecchiarci, di esprimere le nostre idee, ambizioni, speranze, preoccupazioni: gli stessi pregiudizi cui siamo così affezionati. La prima domanda che ci poniamo è , allora, quella sul se andare a votare. Non è più una domanda scandalosa o riprovevole. Il nostro essere cittadini si esplica ed esprime ormai in una molteplicità di forme, modi, occasioni: intervenendo nei talk show, “twittando”, esponendoci senza remore ai sondaggi : anche consumando.

Quella elettorale ( il mitico “suffragio universale”) non è che una tra le tante occasioni che ci si offrono per esprimere la nostra preziosa individualità. Nessuno , di fronte a una così ampia, quasi illimitata gamma di possibilità, trova riprovevole l’abbandono del voto. In realtà, votiamo ogni giorno come utenti, consumatori, clienti, spettatori. Anche questa – l’abbiamo capito – è una dimensione della democrazia. Le partecipazioni plebiscitarie suscitano diffidenza, come la suscitano il voto ideologico e quello su basi etniche o religiose. La confusa superficialità, il chiacchiericcio ininterrotto della rete, si rivelano tanto più saggi, in fondo, di molte delle “scelte di campo” cui ci sentiamo spesso costretti dalla politica. La sola coerenza è quella dovuta a noi stessi. Ma, alla fine, la maggior parte di noi si decide a recuperare la benedetta scheda elettorale (sempre nascosta in qualche cassetto remoto dove avevamo pensato di conservarla, in realtà nascondendola ). Sentiamo che il diritto ( non più obbligo ) di andare a votare è una conquista cui non è così facile rinunziare. Ma non ci chiediamo più per chi ( simbolo o persona) esercitare quel diritto, in chi riconoscerci e identificarci.

Ci chiediamo, piuttosto, per cosa dare il nostro voto, in vista di quali obiettivi, politiche, riforme : in vista di quali narrazioni, come direbbe – retoricamente – Nichi Vendola . Non c’è più, ormai , una esigenza di identità la cui soddisfazione venga affidata esclusivamente alla politica , ai suoi riti, ai suoi volti. Abbiamo un atteggiamento disincantato e pragmatico nei confronti della politica , dei suoi attori, delle loro parole tanto più logore quanto più si sforzano di apparire moderne e ‘smart’. Una volta, ricordate, era considerato improprio chiedere a un conoscente per chi votasse: un po’ come chiedergli in cosa credesse, un toccarlo in quanto di più intimo e riservato gli apparteneva. Oggi non è più così: ci interroghiamo liberamente tra di noi , condividiamo le perplessità, non proviamo imbarazzo se decidiamo di cambiare il simbolo su cui apporre la fatidica croce, anche quello cui avevamo un tempo giurato fedeltà. L’identità politica ha forse concluso la sua corsa e l’elettore dirige le sue scelte verso chi gli offre prospettive di buon governo, quale che sia la sua impostazione od origine ideologica. Il bisogno di governance prevale su quello di government. Il processo attraverso cui risolviamo – tutti insieme – i nostri problemi e facciamo fronte ai bisogni della società è di gran lunga più importante degli apparati formali, dei poteri e degli strumenti istituzionali, degli uomini cui siamo stati abituati a delegare la gestione della cosa pubblica. I partiti non riescono più a trasmettere identità, né a darsene una. Forse è anche per questa ragione ( oltre a una buona dose di opportunismo ) che, nel corso di una legislatura, si assiste a così frequenti cambi di schieramento da parte degli eletti. E’ questa incapacità dei partiti di dare e darsi identità , oltre alla loro corruzione, ad averci disamorato.

Il voto non è più determinato da considerazioni di fedeltà e appartenenza , ma dall’adesione alla più convincente, onesta ( e non semplicemente retorica ) ‘narrazione’ del come ci rappresentiamo e ci proponiamo di essere, o divenire , e dei mezzi attraverso cui riusciremo a farlo, essendo noi stessi attori di quel processo. Votando, non ci affidiamo ciecamente a quella narrazione, alla sua pretesa capacità di auto-realizzarsi, ma assumiamo noi stessi l’impegno di esserne in qualche misura i protagonisti e di promuoverne l’avverarsi. Non è un caso che nelle liste dei candidati, affollate di nomi e volti sconosciuti, prevalgano le persone ‘qualsiasi’, a noi così simili se non identiche. L’elettorato ‘passivo’ si sovrappone, in un curioso effetto ottico, a quello ‘attivo’. Si fa labile la differenza tra candidato ed elettore. Non ci affidiamo più a figure o miti ‘provvidenziali’, ma siamo noi a votare per noi stessi , obbligandoci ‘politicamente’ nei confronti della civitas e della grande narrazione che ogni comunità , per quanto piccola o periferica, vuole esprimere.

Il saper essere ‘qualunque’ del candidato è il modo migliore per esprimere e riconoscere questo mutamento. Il common man, paradossalmente unico e identico a tutti gli altri, è diventato , contemporaneamente, il modello dell’elettore e quello di chi si propone di rappresentarlo. Difficile pronosticare l’esito di questa identificazione. Più facile individuarne i possibili esiti: dall’avvento di nuovi capi carismatici, capaci di convogliare su di sè il bisogno di identità che domina il nuovo individualismo di massa, a quello – forse ancora più temibile – di una burocrazia impersonale e onnipotente cui affidare il compito di realizzare il sogno ( o l’incubo ) della ragione. In passato – entrando nella cabina elettorale oppure disertandola – ognuno di noi sentiva oscuramente di liberarsi ,con quel gesto così segreto, di ogni responsabilità politica. D’ora in avanti, ognuno dovrà cominciare a sentirsi investito della duplice responsabilità propria di una moderna società democratica, in cui il ruolo di chi governa e quello di chi viene governato tendono continuamente a confondersi e sovrapporsi, a dialogare o scontrarsi.