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Piacenza e Palamara, male antico dello Stato mal servito, ora è più grave, perché?

di Michele Marchesiello |27 Luglio 2020 11:36

Piacenza e Palamara, male antico dello Stato mal servito, ora è più grave, perché?

Pur tenendo contro delle differenze, abissali sotto molti profili, è forse il caso di considerare assieme il ‘caso’ Palamara e quello dei carabinieri di Piacenza.

Non come a Piacenza, Palamara e soci certamente non hanno torturato, estorto vantaggi con violenza, smerciato  droga in combutta  con gli spacciatori e forse con la criminalità organizzata.

È altrettanto certo che i carabinieri della stazione di Piacenza – capeggiati nientemeno che da un appuntato – esercitavano il loro tutto sommato modesto potere entro un ambito squallido e limitato. Un parco macchine di tutto rispetto. Qualche festino con escort e champagne. Entrate sicuramente al di sopra di quelle derivanti dal servizio dello Stato. Encomi solenni. E , si immagina,  protezione da parte dei superiori, cui assicuravano ottime statistiche di arresti e sequestri di droga.

Differenze e vicinanze fra Palamara e Piacenza

Cosa può avvicinare questi casi, apparentemente tanto distanti ?

Credo che a metterli sullo stesso livello debba essere la comune concezione di un potere pubblico – praticamente illimitato nell’ambito delle rispettive funzioni – che non viene più esercitato ‘in nome’ non solo e non tanto ‘della legge’. Ma soprattutto di una vocazione e di una responsabilità che trovano nello Stato e nel bene pubblico la loro ragione ultima e forse unica.

Venuto meno questo legame, svincolato dal rispetto di ogni etica istituzionale e civile, il potere conferito a questi uomini ‘dello Stato’, siano essi magistrati, carabinieri, poliziotti o funzionari pubblici, diventa un potere puramente privato- Senza freni etici o morali. Esercitato in una folle dimensione auto-referenziale che non conosce vergogna, pudore, senso civile.

Si tratti di acquistare una moto nuova. Di soddisfare il desiderio piccolo borghese di vacanze lussuose. O più brutalmente di ostentare pubblicamente il proprio potere. La propria forza di intimidazione. La capacità di influire su processi e sugli uomini cui ne viene affidata la gestione-

Oppure si tratti del gusto brutale di menare, minacciare, infliggere gratuite sofferenze a vittime impotenti. Sempre si è disposti – allora –  a mettere mano al proprio potere come merce di scambio, o arma,  per il conseguimento di  illeciti vantaggi, piaceri, privilegi.

Il potere dei prepotenti

È il potere non più dei potenti, ma dei pre-potenti, di quelli che retrocedono a una fase barbarica del potere, a torto creduta superata dall’idea di una società civile.

Peggio ancora di questo, o forse conseguenza, è il vuoto etico in cui questi fenomeni si svolgono. Nella complicità ma – spesso – nella condiscendenza o nella passività di quanti subiscono, partecipano, osservano inerti. O – se osano opporsi – vengono severamente puniti per non aver mantenuto il silenzio su ciò che vedevano.

La famosa società liquida di Zygmunt Bauman sembra, allora, più una società in via di liquidazione, se non abbondantemente liquefatta, deliquescente.

Le peculiarità del presente

Gli abusi più insopportabili, le crudeltà più atroci, le violenze e le torture hanno sempre macchiato la condotta di quelli che si chiamano – e dovrebbero essere – i servitori dello Stato. I quali, invece, dello Stato si servono a loro piacimento, certi dell’impunità garantita dal vuoto etico in cui le loro efferatezze hanno luogo.

Ciò che rende tragico il presente – e in questo senso accomuna i due casi del giudice Palamara e dei carabinieri di Piacenza– è il loro aver avuto luogo in caduta libera, nel vuoto etico. Senza che il paracadute della legalità si mostrasse in grado di ricondurli nell’ambito di una normale, sin banale cifra di illegalità. La prospettiva, per usare un’espressione ormai logora, delle poche mele marce in un cesto di mele sane.

No: le altre mele, quasi tutte, non sono magari marce, ma accettano il contatto e convivono in un silenzio inevitabilmente complice con quelle che lo sono. Pena la riprovazione, l’emarginazione, l’esclusione da una onesta e soddisfacente carriera.

 

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