Santoro e Becchi: Preiti non è Genova 30 giugno 1960

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 4 Maggio 2013 - 12:43 OLTRE 6 MESI FA
paolo becchi

Paolo Becchi, filosofo che capisce la violenza

Il professor Paolo Beccchi, docente di filosofia del diritto nell’ateneo Genovese e proclamato ‘ideologo’ del Movimento 5 Stelle, durante la trasmissione di Michele Santoro, ‘Servizio Pubblico‘, nel tentativo di riparare goffamente alla sua improvvida affermazione circa il ricorso ai fucili, a suo dire incoraggiato dalla politica economica di un governo ‘di banchieri’, , ha del tutto impropriamente richiamato i moti di Genova del 30 giugno 1960, quando una sollevazione popolare riuscì a far cadere il governo Tambroni e impedire il ritorno al potere dei neo fascisti .

All’improprietà del richiamo (si discuteva del gesto disperato dello sparatore di Palazzo Chigi) si sono aggiunte le improprietà di Michele Santoro e di Sergio Cofferati, pure invitato alla trasmissione. L’altro invitato ‘di pregio’, Alessandro Sallusti, ha introdotto una nota di granguignol, suggerendo che in un paese ‘normale’, dopo il primo colpo di revolver, l’attentatore sarebbe stato crivellato da centinaia di colpi d’arma da fuoco da parte delle forze dell’ordine.

“ Ma i nostri poliziotti – ha concluso con evidente rammarico Sallusti – hanno perso l’impulso stesso di sparare”.

Da navigato ‘conduttore’, Santoro ha aggredito il povero professore genovese:

“ Ecco, vede che lei fomenta il ricorso alla violenza popolare!”

Da parte sua, Cofferati ha osservato in tono sommesso che, nel caso dei moti genovesi, non era stato fatto uso di armi.

In realtà ,più che di uso improprio delle armi da fuoco, si dovrebbe parlare a questo punto di uso improprio della Storia e del fatto storico dei moti genovesi del giugno 1960, di cui evidentemente molti hanno perso , più che la memoria, il significato, pensando di poterlo accostare all’episodio di Palazzo Chigi.

Quella sollevazione (che non riuscì a trasformarsi in vera e propria rivolta solo per l’intervento dei vertici del Pci) non fece ricorso alle armi, né tanto meno ebbe carattere terroristico o anarchico, né fu il frutto di quello che si chiama oggi ‘disagio sociale’. Essa fu piuttosto l’esito esasperato di un ‘disagio politico’, da parte di chi ancora si sentiva protagonista e insieme erede della Resistenza. Fu – quello di Genova – un episodio di resistenza popolare al pericoloso degenerare della conduzione politica del Paese verso forme autoritarie ed esplicitamente fasciste.

Questo è il punto, caro Cofferati: non l’essere stata quella rivolta priva di armi, armi che peraltro sarebbero state a disposizione e ancora pronte all’uso.

E, caro Santoro, è a dir poco allarmante che – per mettere nell’angolo un professore di provincia , elevato suo malgrado al ruolo di ‘ideologo’ di un movimento che di ideologia non sembra avere nemmeno l’idea – si accetti di paragonare senz’altro quei fatti storici all’azione di un disperato che vuol dare uno sbocco violento e sanguinoso alla propria impotenza.

No: chi andò in piazza De Ferrari il 30 giugno di quel lontano 1960 – oltre a non essere stato armato (le sole armi erano quelle della Celere di Scelba : la stessa chiamata a intervenire sempre a Genova, in occasione del G8, quando i manifestanti, quelli veri, erano egualmente disarmati) – non fu mosso da disperazione, né animato dal desiderio di una insensata violenza.

Gli ex partigiani e i loro figli, i ‘ragazzi dalla maglietta a righe’, erano animati, al contrario, dalla speranza che da quel loro rischioso scendere in piazza contro la minaccia fascista e autoritaria, potesse derivare una ripresa del cammino intrapreso con la Resistenza, quel cammino che la Costituzione aveva inteso, pur tra mille contraddizioni e ostacoli, salvaguardare e promuovere.

Quel cammino verso un’autentica democrazia, aggiungiamo noi, che la prospettata ‘Convenzione costituzionale’ a presidenza berlusconiana si propone spudoratamente di impedire.