Martinelli, più che eroe anti fisco vittima e attore del “teatro tasse”

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 4 Maggio 2012 - 13:14 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Quando ero al liceo, tanto tempo fa, sempre girava una diceria maschilista a carico di qualche compagna di classe: “Quella esce con mezza città”. E a chi mi avvertiva della fortunata circostanza, più o meno sempre mi toccava replicare con una battuta per nulla machista: ” Chissà perché io sto sempre nell’altra metà, nell’altra mezza città”. Questo paradosso statistico dell’adolescenza mi torna in mente a proposito delle tasse: mezza Italia non paga le tasse, sicuro, documentato, ci puoi giurare. Ma chissà come è, tutti quelli che protestano, marciano, lamentano e danno ora anche di matto fanno parte dell’altra metà, della mezza Italia che paga le tasse, anzi che di tasse sta morendo soffocata. Curioso, no? E’ come se lanci in aria cento, mille, diecimila, centomila volte una moneta e quando ricade viene sempre “croce” e mai “testa”. Che fai non ci credi che son tutte vittime innocenti, che fai stai con Equitalia? No, con Equitalia non sto ma neanche con impresari, attori e comparse più o meno consapevoli di quel che fanno e allestiscono sulla pedana del teatrino delle tasse.

Teatro, pura rappresentazione dove si recita l’atto unico e drammatico del “Fisco che uccide”. Con molta, moltissima licenza e per nulla poetica si attribuisce al fisco, alle tasse, quel che è della crisi economica, del venir meno delle certezze di un sistema di produzione e distribuzione della ricchezza e del reddito. Incerta e calante è diventata la quota di reddito del paese intero, incerti e calanti sono diventati i redditi di decine di milioni di individui in carne e ossa. Ma non certo per colpa del fisco o in conseguenza delle tasse pagate. Quel gigantesco smemorato di Collegno che è l’Italia, insieme ai suoi giornali, alle sue televisioni, ai suoi partiti politici, ai suoi sindacati, ai suoi talk-show, ai suoi molteplici e rispettati “apri la bocca e dagli fiato”, ha dimenticato di essersi fieramente indignato neanche un mese fa. E su cosa si era indignato, sorpreso, cosa aveva sgomentato il paese e i partiti, i sindacati, i giornali, le tv, gli opinion-leaders? Il fatto che la metà di tutti i contribuenti italiani dichiarava al fisco redditi entro i 15mila euro annui e che la metà diventava tre quarti se il reddito dichiarato arrivava a 30mila euro annui e che a dichiarare 100mila euro annui era scarso il due per cento, il 98 per cento degli italiani stava sotto, molto sotto. Ora poiché le tasse si pagano in base a quanto si dichiara, fatto salvo che hai mentito e che se ne accorgono, l’Italia o se volete il 98 per cento degli italiani paga tasse “pesanti” solo per otto milioni di contribuenti su quaranta, quelli dalla dichiarazione dai quarantamila euro in su. Gli altri 32 milioni di contribuenti non sono “strozzati” proprio da nulla. E se la crisi in una delle sue varie forme e incarnazioni gli mangia l’azienda o l’attività il fisco non c’entra.

Ma allora perché si recita  con amplissimo successo di pubblico e anche di critica l’atto unico e drammatico del “Fisco che uccide”? Perché fa comodo, perché è alibi, perché toglie responsabilità e promette scappatoia. Scrive sul Corriere della Sera Dario Di Vico che da tempo ha a cuore proprio i cosiddetti “piccoli” dell’imprenditoria e dell’economia: “E’ importante proseguire la recita…la stessa frequenza dei suicidi, che organizzazioni responsabili farebbero bene a non enfatizzare e a non usare come strumento di lotta politica…”. Sì, perché nel teatro della tassa killer sono stati arruolati dal casting tutti coloro che si tolgono la vita. Addirittura si conteggiano e mettono in tabella sulle slide televisive i “suicidi di natura economica”. Le ragioni per cui un uomo o una donna possono scegliere di togliersi la vita sono sempre complesse e mai univoche, c’è poco rispetto perfino per questi morti nell’arruolare i loro cadaveri e portarli in corteo contro le tasse. Qualcosa di macabro e anche qualcosa di grottesco. Qualcuno sa quanti italiani si suicidano in un anno in media, quanti si suicidavano anche prima del cupo tempo delle tasse? Qualcuno sa, ha il coraggio civile e scientifico di classificare quale suicidio sia la diretta ed esclusiva conseguenza di una imposta e quale no?

Scrive ancora DI Vico: “E’ questa l’impressione che si ha leggendo le cronache, guardando i talk-show televisivi, seguendo la campagna elettorale: tutti preferiscono scucire, invocare lo sciopero, dichiararsi indignati, promettere vendette, alzare la voce, citare dati a vanvera, cercarsi un avversario. In pochi fanno i sarti, dedicano il loro tempo e potere ad ascoltare, avanzare proposte sensate, ricucire…”. Proposte sensate e non il “teatro delle tasse” che ha spinto quel Luigi Martinelli a sentirsi in obbligo di recitare anche lui, reclamando un “assolo” da protagonista: “Voglio parlare con Monti” diceva e recitava mentre teneva in ostaggio più giornali e tv che impiegati della Agenzia delle Entrate. Un fucile in mano a fronte di un debito di mille euro con il fisco: puro ed estremo teatro di cui Martinelli è vittima ma non certo eroe.

E spiace che uno dei più attenti osservatori della società e dei più brillanti giornalisti, Massimo Gramellini, stavolta abbia partecipato alla rappresentazione, alla messa in scena. Mescolando, sovrapponendo la performance di Martinelli niente meno che con il “rigore tedesco”, la Merkel, la Bce, il Fiscal Compact… La “Emergenza nazionale” su cui titola il pezzo di Gramellini su La Stampa c’è, eccome. Anzi son due. Una è quella di un paese europeo che da quindici anni consuma la ricchezza prodotta senza riuscirne a produrre di nuova e non riesce a dirsi che questo è il problema. L’altra emergenza, minore ma anch’essa nociva, è quella appunto del teatro, dell’atto unico che degrada in “sceneggiata”.

Stiamo alle proposte sensate come ricorda Di Vico. Sensato e doveroso è che chi ha debiti con il fisco ne possa facilmente rateizzare il pagamento, sensato e doveroso è che il fisco non sequestri  l’attività del contribuente moroso perché è da quella attività che il fisco può essere pagato. Sensato e doveroso è abbassare gli interessi di mora e le sanzioni suppletive imposte da Equitalia ma anche da molti enti pubblici che dietro Equitalia si riparano e nascondono. Insensata è invece la fanfara che pure risuona secondo la quale chiunque sia in difficoltà economica e per qualunque ragione abbia queste difficoltà deve di fatto essere esentato dal pagare le tasse. Fino ad arrivare ad una strana teoria che pur s’avanza: se hai fatto debiti, allora non paghi, neanche il fisco. Non paghi, non pagare, parola che seduce e attrae: chi si è privatamente indebitato, chi deve rinunciare allo status o all’attività precedente e perfino seduce e attrae i negazionisti del debito pubblico che fioriscono a destra a sinistra del campo politico e sociale europeo. Denunciare il debito, non pagarlo: la suggestione risuona e coinvolge. Diventa parola d’ordine di ogni indignato e di ogni indignazione. Salvo omettere il “particolare” che se nessuno paga il suo debito il giorno dopo non si mangia. E non è vangelo, è economia e storia.

Fa bene Roberto Napoletano, direttore del Sole 24 ore, a inquadrare l’episodio di Romano di Lombardia, la “scenata” di Luigi Martinelli, in un quadro dove c’è il taxista di Atene e il suo rancore verso l’Europa, la Germania, verso tutto e tutti. Sì, il quadro è quello: un intero continente, popoli interi che soffrono a cambiare quel che non possono non cambiare e fortemente vogliono mantenere quel che non possono mantenere. Una sofferenza, un dolore, una resistenza che possono diventare rivolta, sia pur suicida rivolta. Questo è il vero, storico problema. E’ troppo per noi italiani fare a meno di raccontarcela alla provinciale, smettere di “provarci” a gridare “a morte Equitalia” e hai visto mai che facendo casino qualche tassa ce la abbonano?