No Tav esige stampa embedded e le cronache fanno l’inchino

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 5 Marzo 2012 - 13:38 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – L’ultimo fine settimana televisivo è stato molto “berlusconico”. Come ai tempi di SuperSilvio a Berlusconi non si osava domandare in tv dove fossero i milioni di posti di lavoro promessi e creati oppure dove come e quando avesse spiegato a Bush come fermare la crisi mondiale del debito, per tutto il sabato e la domenica televisiva al militante No Tav non si è osato domandare altro che il suo piccolo e accorato comizio. Vista in tv una No Tav di lungo corso dichiarare: “Dallo scavo uscirà uranio e amianto in misura tale da avvelenare terra e uomini, la Tav costerà venti miliardi…”. Nessuno ha osato domandare non diciamo prove ma indizi della sciagura in arrivo. Nessuno che domandasse dove “risultava” l’eruzione prossima ventura di uranio, nessuno che avesse letto o volesse ricordare quel che pure era stampato sui giornali del mattino: costo della Tav dieci miliardi, percorso modificato per far sì che tutti i lavori o quasi fossero in galleria. Fatte le debite proporzioni, tutta la tv pendeva dalla labbra dei No Tav, come ai tempi di SuperSilvio che con quella bocca poteva dir quel che voleva.

La tv, soprattutto la tv, meno la carta stampata. E il perché della differenza lo aveva annunciato in diretta una cronista di RaiNews: “Qui rischiamo le botte”. Già, quelli della tv arrivavano a contatto fisico con i manifestanti No Tav e scoprivano dal vero che era rischioso far domande, meglio fare “l’inchino” quando la rotta dell’informazione costeggia l’isola antagonista. Scoprivano dal vero quelli della tv ciò che in maniera più dotta e riposata Ilvo Diamanti scriveva su La Repubblica il lunedì mattina: “I No Tav non solo cercano ma esigono l’attenzione dei media”. Giusto, evidente. Quel che Diamanti dimenticava di scrivere è che “esigono” non solo l’attenzione ma l’attenzione schierata a loro favore, altrimenti “si rischiano le botte”. Questo l’hanno scoperto quelli del tv, l’hanno scoperto “sul campo”. Scoperto in una sorta di nemesi, infatti a scoprirlo sono stati soprattutto i giornalisti delle testate più “vicine” ai No Tav: RaiNews sempre molto dolce attenta con i No Tav ha avuto una telecamera spaccata a mo’ di ammonimento, Piero Sansonetti, ex direttore di Liberazione, è stato “accompagnato” fuori dal corteo, presidio e delegazione dei No Tav sotto la redazione del La Repubblica a chiedere “spazio”.

Eppure La Repubblica aveva nei due giorni precedenti pubblicato due interventi di Adriano Sofri molto comprensivi verso i No Tav, articoli che proponevano in sintesi moratoria dei lavori e referendum tra valligiani. Non era bastato, i No Tav, insieme a baschi, curdi, boliviani, palestinesi, tutti evidentemente toccati direttamente dall’Alta Velocità in Val di Susa, volevano di più. Non avevano ancora letto Eugenio Scalfari sullo stesso giornale, uno dei pochi che abbia scritto con chiarezza il suo stupore per questi giovani terrorizzati da un treno veloce e in fondo dal mondo reale. Antonio Polito sul Corriere della Sera li ha definiti “amish”, cioè nemici e fieri avversari della modernità. Che faranno i No Tav quando passeranno sotto il Corriere?

L’inventiva del movimento è ampia e feconda, ha coniato la sigla, l’acronimo “Acap”. L’originale era “Acab”, cioè “tutti i poliziotti sono bastardi” (all cops are bastards). Declinato in “Acap”, cioè “tutti i poliziotti sono pecorella” a rivendicazione orgogliosa della performance  di Marco Bruno davanti al carabiniere. Eppure i No Tav si sono innervositi molto per la diffusione di quel filmato, di quel video. Contraddizione? A ben guardare no. La contraddizione si sana se si ottempera alla richiesta mediatica dei No Tav: devono essere loro a decidere ciò che va in onda e in stampa. Qualcuno nella politica ha capito l’antifona, ad esempio Di Pietro che da ministro giudicò la Tav “indispensabile” e firmò il progetto e ora ne chiede la immediata sospensione. Qualcuno, più d’uno, soprattutto nelle televisioni ha subito la “lezione” e porge deferente il microfono. Si fa “l’inchino”, come si faceva a Berlusconi. Con Berlusconi si rischiavano “editti” ma le “botte” no. E’ questa la differenza “democratica” tra il “regime” e il “movimento”.