Neonati abbandonati, madri assassine: siamo tutti un po’ colpevoli

Neonati abbandonati, madri assassine: la solitudine della maternità
Neonati abbandonati, madri assassine: la solitudine della maternità

Per nove mesi ha nascosto a tutti la gravidanza, poi, quando è arrivato il momento, si è chiusa in bagno e, da sola, in silenzio, ha partorito quel figlio non voluto. Quindi ha aperto la finestra e l’ha gettato sulla strada. O almeno questa è la ricostruzione degli inquirenti su quanto sarebbe accaduto la sera del 30 maggio a Settimo Torinese.

Lei, una giovane donna di 34 anni, come solo poco tempo prima una ragazza di 16 anni di Trieste. Hanno abbandonato il loro figlio non voluto. E adesso rispondono dell’accusa di omicidio volontario.

Madri assassine, ma non sono Medee. Nessun disegno criminoso, è lecito immaginare, dietro a quell’assassinio, che pur sempre assassinio è, e di un essere indifeso per di più.

Ma per arrivare a tanto, cosa è successo prima? Le due giovani di Torino e di Trieste, come forse la più nota Annamaria Franzoni, o le altre meno note madri che hanno fatto lo stesso, cosa hanno in comune oltre all’omicidio?

Hanno spesso storie di depressione e di abbandono, che in tanti casi vengono insieme, forse di maternità non volute, di certo di maternità vissute in solitudine. Pochi amici, poche frequentazioni, realtà talvolta disagiate, famiglie distanti o indifferenti, e un compagno, quando c’è, che forse lavora molto, forse si dà tanto da fare per la famiglia, ma forse, anche, non ha saputo essere presente in quello che una donna che diventa madre vive, con la vita che viene completamente stravolta da un cucciolo di essere umano che, almeno nella maggior parte dei casi, si fa ancora in due.

Perché è sempre apprezzato l’atto che porta alla procreazione, quello sì. Ma poi… Tra gravidanza e post-gravidanza, cure e rinunce (oltre alle gioie della maternità, ma quelle sono risapute), il due spesso si riduce ad uno, almeno per la maggior parte del tempo.

E in tutto quel percorso, chi aiuta una donna, magari giovane o giovanissima, ad imparare a fare la madre? Chi la sostiene nel conciliare vita lavorativa e maternità? O chi le è vicino se lei decide (cosa legale in Italia) di non voler essere madre? Di certo non i tanti cosiddetti obiettori di coscienza, presenti solo fino a quando non hanno raggiunto l’obiettivo di salvare un feto dall’aborto.

Allora forse, anziché colpevolizzare soltanto, si potrebbe guardare al lavoro (sì, lavoro, assai più intenso di tutti gli altri lavori) che fanno le madri, prenderne atto e considerarlo tale. Magari fare in modo che il cammino della maternità sia meno difficile e solitario. Quando una madre sta male, non liquidare la cosa come normale “depressione post parto”. E soprattutto non pensare che sia normale che le donne che vogliono un figlio debbano volere anche tutto quello che non è richiesto a nessun uomo che vuole un figlio.

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