Arabia Saudita addio al wahabismo e al petrolio? L’estremismo religioso blocca lo sviluppo

di Pino Nicotri
Pubblicato il 25 Ottobre 2017 - 05:53 OLTRE 6 MESI FA
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La presentazione di Neom, la zona franca che l’Arabia Saudita si appresta a varare

RIAD – Incredibile, ma vero: l’Arabia Saudita ha deciso di affrontare e ridimensionare lo strapotere della sua religione di Stato, il famigerato wahabismo, il ramo più retrivo e oscurantista di tutto l’islam. E intanto ha lanciato una zona economica indipendente sul Mar Rosso, grande tre volte il Cipro e con cinquecento miliardi di dollari in investimenti proiettati.

La zona, soprannominata Neom, avrà un “quadro normativo distinto” rispetto alla Arabia Saudita e fa parte di un piano ancor più ambizioso che si chiama Visione 2030 che il principe ereditario saudita Mohamed, che lo ha presentato nell’aprile dell’anno scorso, vuole realizzare in maniera completa entro il 2030.

Ma è difficile riuscire a trasformare per quella data l’Arabia Saudita, il più grande esportatore di petrolio del mondo, l’oro nero che ha fatto la fortuna del wahabismo, nello Stato un po’ più moderno e meno medioevale sognato dallo scalpitante principe, appena 31enne, figlio del quasi 90enne e molto malato re Salman, senza disfarsi almeno delle interpretazioni più estremiste della religione dello Stato islamico saudita: vale a dire, quel wahabismo che oltre a considerare le donne come semplici oggetti col buco, soggette a un vero e proprio apartheid, implica tra l’altro anche robusti sostegni più o meno sottobanco anche all’Isis, come a suo tempo a Bin Laden e ai talebani, perché anche loro wahabiti.

E implica anche scontri anche armati tra islam sunnita, del quale il wahabismo fa parte, e islam sciita, come per esempio l’Iran, del quale non a caso l’Arabia Saudita e gli altri regni del Golfo, quasi tutti whabiti, sono oggi nemici giurati. Lo scontro tra sunniti e sciiti va avanti da secoli, è la guerra intestina chiamata Fitna, sulla quale l’Occidente a volte soffia per praticare il solito “divide et impera”.

Per andare verso la moderniazzione, di recente sono arrivate alcune piccole e limitate concessioni di diritti alle donne, come entrare nei ranghi del ministero dell’Interno, andare allo stadio, dallo scorso settembre, andare in bicicletta ma solo come trastullo e non come mezzo per spostarsi, solo in alcune zone del regno e sempre accompagnate da un uomo della famiglia o comunque un tutore – e dalla fine del mese scorso addirittura guidare l’auto.

Unico Paese al mondo dove per le donne esiste il divieto di guida, le prime patenti femminili saranno concesse a partire dal giugno del prossimo anno, ma a quanto pare ci vorrà comunque il permesso scritto di un familiare di sesso maschile. Le donne potranno perfino partecipare in futuro all’emissione dei pareri giuridici e religiosi chiamati fatwe.

Dopo la concessione di questi diritti alle donne, un affronto per il clero wahbita, è stata varata un’istituzione incaricata di sradicare le interpretazioni più fanatiche della religione, impedendone così la loro velenosa propaganda, e di mettere all’indice le false interpretazioni di ciò che ha o avrebbe detto Maometto, cioè dei suoi hadit.
Anche Maometto infatti non ha lasciato scritto nulla di suo e tutte le affermazioni, atti e azioni che gli vengono attribuite – la raccolta chiamata Sunna, donde il nome di sunnita per il ramo dell’islam, oggi l’85% del mondo musulmano, che, a partire dal IX secolo, la segue alla lettera – sono il frutto di una selezione fatta qualche secolo dopo la morte del profeta  in base ai racconti che erano stati tramandati da soggetti “degni di fede” (thiqa), considerati quindi come anelli della catena (silsila) di “garanti” della tradizione islamica.
 
Ovviamente in perfetto ossequio con le disposizioni del corano, il libro sacro che secondo la tradizione sarebbe stato dettato da Dio tramite un angelo a Maometto. il messaggio 14 secoli fa a partire dal 22 dicembre 609 e destinato a ogni essere umano sulla Terra. Da notare che dopo il corano la Sunna costituisce la seconda fonte della Legge islamica nota come Sharya. 
La nuova istituzione, che in buona sostanza di fatto dovrà aggiornate la Sunna e decidere qual è la sua versione ortodossa, e quindi la stessa Sharya, si chiama King Salman Complex, ha sede a Medina, città santa dell’islam assieme a La Mecca, e sarà  dotata di un consiglio di studiosi di prestigio del corano e dell’islam provenienti da tutto il mondo. Il fatto che il principe ereditario, cioè a meno di colpi di scena o di Stato il prossimo re dell’Arabia Saudita, abbia sentito la necessità di affrontare un tale problema indica che il fanatismo wahbita è diventato, oltre che motivo di foraggiamento più o meno sotto banco dell’Isis oggi come di Bin Laden e dei talebani ieri, anche un rischio per la stabilità dello stesso regno saudita.
Si tratta infatti di un regno che come costituzione ha il corano e come legge penale e civile la famosa, e alquanto famigerata, Shahrya: quella, per intenderci, che ordina il taglio delle mani ai ladri, la condanna a morte tramite decapitazione di tutta una serie di comportamenti più che legittimi in Occidente, alcuni dei quali addirittuta previsti nella Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Uomo, e anche 1.000 frustate, da comminare anche in 20 anni, per “reati” quali la libertà di espressione delle idee. Il tutto in uno Stato che più che un vero e autonomo bilancio statale ha il bilancio delle entrate della famiglia reale, i sauditi, tribù che conta oltre 10 mila membri. Ai quali va di diritto buona parte delle entrate che in Occidente sarebbero dello Stato e che in Arabia sono invece più che altro della corona.  Teniamo presente che l’attuale re è fratello del re precedente, quel Fahd che amava farsi chiamare anche con i titoli di:
–  “Guardiano dei luoghi santi”, custode cioè di La Mecca e Medina (Khadim Alharamayn Alsharifa Makat al Karamat Wal Madinat Almunawara ), quindi una sorta di custode dell’islam;
–  “Colui che merita la devozione”(Al Mufada);
–  “Il detentore dell’autorità divina ultima” (Mawlana);
–  “Colui che decide tutte le cose” (Waly Al Amr).

 Alleato politico militare in Medio Oriente degli Stati Uniti.

Difficile conciliare tutta questa pretesa di autorità e legittimità anche teologica e religiosa con l’essere il principale alleato politico militare in Medio Oriente degli Stati Uniti nonché in più che ottimi rapporti con l’Europa. Vale a dire, con quelle parti del pianeta che i wahabiti considerano impure, corrotte, blasfeme, e via enumerando vizi che in Arabia Saudita si puniscono con la decapitazione in piazza sia a Ryad che a Gedda dopo la preghiera del venerdi nelle rispettive principali moschee: a Gedda nella piazza di fronte alla moschea di al-Jafali, a Riyadh nella piazza Deera Square conosciuta anche come Piazza della Giustizia o anche col macabro nome di “Chop Chop Square”.

E’ qui che vengono tagliate le mani ai ladri e le teste ai condannati a morte, a volte decine in una sola ”seduta”, davanti a un pubblico sempre curioso. Insomma, ce n’è più che a sufficienza perché il puritanesimo, l’inflessibilità e il Medioevo wahabita diventino anche una minaccia per gli stessi sauditi, per la legittimità quanto meno religiosa del loro potere, a causa soprattutto della volontà di rendere il regno un po’ più al passo coi tempi attuali. Riuscirà il principe ereditario nel suo intento contro il fanatismo whahbita? Ne perleremo più avanti. Intanto vale la pena di notare che dopo essere stato nominato il 29 aprile 2015 vice-principe ereditario, cioè vice del principe ereditario cugino Mohamed bin Nayef, il giovane Mohammed bin Salman (bin significa figlio: i due si chiamano entrambi Muhamad, ma uno è figlio di Nayef e l’altro di Salman) è stato nominato dal padre suo successore diretto lo scorso 21 giugno. Vale a dire, un mese e due giorni dopo la visita di Stato del presidente Usa Donald Trump che nell’occasione ebbe a dichiarare:

“Non sono venuto qui a darvi lezioni, non sono io a dirvi come dovete vivere. […..] I nostri amici non dovranno mai dubitare del nostro appoggio. Le alleanze migliorano la sicurezza attraverso la stabilità, non gli strappi radicali. Prenderemo le nostre decisioni basandoci sul mondo reale, non su ideologie inflessibili. Quando sarà possibile, cercheremo riforme graduali, non interventi improvvisi”.
Si direbbe quindi che il cambio di eredità e la decisione di lottare contro l’estremismo religioso – causa di finanziamenti all’Isis e al suo terrorismo esercitato anche in Europa – sia una conseguenza delle “riforme graduali” ventilate da Trump. Da notare che la notizia del permesso alle donne di guidare l’auto è stata data contemporaneamente a Ryad e a Washington, dove l’ambasciatore saudita ha dichiarato: 
“Questo è il momento giusto per questo cambiamento perché in Arabia Saudita abbiamo una società giovane e dinamica”.
Sta di fatto però che ancora oggi le donne, oltre a non poter mostrare il loro volto in pubblico, sono obbligate ad avere un tutore uomo. Per avere un documento di identità e per aprire un conto in banca serve il consenso del tutore, cioè maschile. Possono inoltre votare, ma solo nelle elezioni locali e solo se accompagnate alle urne da un uomo, come del resto sempre in pubblico, possono candidarsi ma non parlare in pubblico.
Ora forse Mohamed bin Salman, per buona misura nominato anche vicepremier con le funzioni di ministro della Difesa, spingerà sull’acceleratore della sua Visione 2030. Ma in cosa consiste questo piano 15ennale? Il suo nocciolo è la creazione di un fondo sovrano del valore di almeno 2.000 miliardi di dollari, il più ricco del mondo, per fare shopping di aziende, società e compartecipazioni varie nel pianeta per diversificare l’economia arabo saudita riducendo la dipendenza dal petrolio. I 2.000 miliardi verrebbero raggranellati vendendo  intanto quasi il 5% di Aramco, la più grande compagna petrolifera al mondo, per poi privatizzarla più o meno totalmente.  Il principe eredtario con la sua “Visione 2030” punta anche a motiplicare per 6  le entrate non petrolifere del regno, portandole dagli attuali 43,5 miliardi a 267, aumentando anche le esportazioni non petrolifere. E’ inoltre previsto l’incremento del contributo del settore privato al prodotto interno lordo (PIL) portandolo dall’attuale 40% al 65%.
Nelle intenzioni del futuro re d’Arabia, Visione 2030 porterà anche a cambiamenti sociali non indifferenti, tra l’altro espanderà l’industria, taglierà la disoccupazione e porterà l’occupazione femminile al 30% della forza lavoro totale dall’attuale 22%. L’incremento del lavoro femminile è una delle cose irrealizzabili senza depennare dal wahabismo almeno gli aspetti più duri e odiosi della visione, sottomissione e apartheid della donna e senza mettere la religione di Stato in condizione di non nuocere troppo almeno al potere saudita, del quale è stato il motore venendone in compenso adottata.
Riuscirà il principe ereditario nel suo intento? Sarà molto difficile. Il wahabismo è infatti l’altra faccia della tribù e della corona saudita. Nasce come corrente islamica sunnita nel XVIII  secolo, ma si afferma soltanto nel ‘900, grazie all’appoggio delle grandi potenze occidentali alla monarchia saudita, messa sul trono dell’intera Arabia dall’Inghilterra al posto di alternative meno oscurantiste. Il wahabismo in quanto tale nasce per opera di Muhammad Ibn Abd al Wahab, nato nel 1703 e scomparso nel 1792, che fin giovanissimo si dedicò alla predicazione delle idee di suo padre Abd Wahab, che non era riuscito a diffonderle. Ecco cosa ha scrittolo scrittore di origini pakistane Tariq Ali, autore de “Lo scontro dei fondamentalismi” (Rizzoli):
“Nel 1744 Ibn Wahab arrivò a Deraiya, una piccola città-stato nella provincia del Nejd. La località era famosa per le sue piantagioni di datteri e il suo famigerato bandito-emiro, Muhammad Ibn Saud, fu lietissimo di accogliere un predicatore espulso da un potentato rivale. Capì subito che gli insegnamenti di Wahab avrebbero favorito le sue ambizioni. Wahab forniva una giustificazione teologica per quasi tutto quello che Ibn Saud desiderava ottenere: una jihad permanente che prevedeva il saccheggio delle altre città musulmane, l’imposizione di una severa disciplina e infine l’affermazione del proprio potere sulle tribù vicine, unificando la penisola. L’emiro e il predicatore suggellarono un mithaq, un accordo che sarebbe stato onorato per l’eternità. Prevedeva il fervore religioso al servizio dell’ambizione politica, ma non viceversa”.
Il tutto, su un territorio, il Nejd, che galleggiava sul petrolio e che si allargherà su altre terre straricche di giacimenti petroliferi, fino a dar vita all’attuale gigante Aramco. Con l’alleanza tra Muhammad Ibn Saud e Muhammad ibn Wahab cominciarono i massacri giustificati dalla religione.  Nel 1801 seguaci di Ibn Wahab assalirono la città santa di Karbala, facendo sgozzare cinquemila nemici. Nel 1802 conquistarono Taif massacrandone la popolazione. A favorire l’ascesa dei Saud è stato però l’agente britannico Philby, il quale spiegò a Londra che era nell’interesse della Corona inglese sostenerli militarmente perché, a differenza degli altri leader della penisola araba, avrebbero accettato un rapporto di vassallaggio. Man mano però il vassallaggio è diventato lo strapotere finanziario dell’Aramco e dell’Arabia Saudita. Che ora Visione 2030 tenta di ripulire almeno da alcuni dei suoi aspetti più orribili con la sperazna che l’Occidente in nome del petrolio e del business continui a chiudere un occhio su tutto il resto.
Sarà dura evitare che la creatura allevata dai sauditi e diventata l’altro lato della stessa medaglia, il wahabismo, non finisca col divorare i suoi allevatori. Più che una riforma, si profila uno scontro feroce tra i due fronti alleati fin dalla nascita oltre due secoli fa e miracolati in modo iperbolico dal petrolio. O più esattamente dalla gigantesca quantità di denaro pagato man mano dai sui acquirenti occidentali.