Banda della Magliana. E’ morta Carla De Pedis, vedova di Renatino. Una vita di amarezze dai mass media

di Pino Nicotri
Pubblicato il 9 Maggio 2020 - 07:26 OLTRE 6 MESI FA
Carla De Pedis, vedova di Renatino morta l'8 maggio

Carla De Pedis, vedova di Renatino morta l’8 maggio (In foto Enrico De Pedis, archivio ANSA)

Ieri mattina 8 maggio, ha improvvisamente smesso di soffrire, a 71 anni, Carla Di Giovanni vedova De Pedis. 

Il decesso è avvenuto dopo una lunga malattia, che l’ha portata a peregrinare tra ospedali, cliniche e centri di cura a Roma, Milano e Pavia. 

Carla Di Giovanni era vedova di quell’Enrico De Pedis, detto Renatino utilizzando come diminutivo il suo secondo nome. 

Dal settembre 2005, grazie a una telefonata anonima, ma che la magistratura ha appurato non essere partita dall’esterno della Rai, è diventato per anni un tormentone. 

Lo ha  propinato prima da “Chi l’ha visto?” e poi da quasi tutto il giornalismo italiano, specie televisivo, perché “Renatino” era sepolto in un sotterraneo, sconsacrato, della basilica romana di S. Apollinare. 

Secondo la telefonata anonima, registrata al centralino di “Chi l’ha visto?” a fine luglio e mandata in onda alla ripresa del programma a settembre dopo la pausa estiva, nella bara di De Pedis c’era la soluzione del mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi. 

Emanuela era la figlia di un commesso di papa Wojtyla sparita il 22 giugno 1983.

E’ esploso così, con quella telefonata, il tormentone causa iniziale del decadere della salute di Carla Di Giovanni. 

La leggenda voleva Emanuela – e poi per buona misura anche Mirella Gregori, sedicenne scomparsa a Roma sei settimane prima di Emanuela –  sepolta nella bara di De Pedis. 

Il tormentone ha anche eletto “Renatino” boss della più mitologica che mitica Banda della Magliana. 

Banda con la quale tutte le sentenze giudiziarie hanno accertato che De Pedis non c’entrava assolutamente nulla, e che in realtà quel sodalizio malavitoso era ben poca cosa. 

Ben poca cosa, ma molto strombazzata da tutti i massmedia grazie all’incredibile successo di Romanzo Criminale. 

Si tratta del voluminoso romanzo del magistrato Giancarlo De Cataldo trasformato anche in film e serie televisiva di grande successo. Wikipedia così definisce la trama del romanzo:

“La storia della Banda della Magliana e del suo dominio incontrastato a Roma, sullo sfondo degli anni Ottanta in Italia, tra stragi, mafia, tangenti, strategia del terrore e consumismo.

“Venticinque anni trascorsi tra loschi affari, commercio di droga, violenza, con il commissario Scialoia ad indagare sulle tracce degli spietati criminali con l’intento di fermarli”.

Non è mancato neppure il tentativo di addebitare alla Banda della Magliana perfino la terribile strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. 

Quando una bomba sistemata nella sala d’aspetto uccise 85 persone e ne ferì oltre 200. 

La leggenda vuole che il personaggio che nel romanzo era soprannominato Il Dandy fosse in realtà De Pedis.

Che è rimasto prigioniero della leggenda a onta delle sentenze della magistratura e della realtà. 

Da notare che prima della sua uccisione nessun giornale lo ha mai nominato, se non una sola volta e di striscio, in articoli sulla Banda della Magliana. 

Uccisione avvenuta, come meglio vedremo, il 2 febbraio 1990 in via del Pellegrino a Roma. 

Per i miei libri, compreso quello sulla Banda della Magliana, mi sono letto e studiato chili e chili di rapporti di polizia, carabinieri, finanza e “servizi” vari sulla famosa banda e dintorni. 

Compresi i rapporti su malavitosi di peso. 

In nessuno mai ho letto il nome di De Pedis, se non in un rapporto che parlava del ristorante discoteca da lui gestito. 

Esso annotava solo che De Pedis non amava guidare l’auto.   

Il film omonimo Romanzo criminale avrebbe dovuto sbarcare nelle sale cinematografiche alla fine del settembre 2005, e grande era l’attesa.

Anche perché tra i suoi interpreti c’era l’attore Michele Placido, famosissimo per il suo impegno contro la mafia. 

L’utilizzo di quella telefonata anonima partita non dall’esterno della Rai ha permesso a “Chi l’ha visto?” il colpo geniale di inserirsi nella scia dell’enorme successo di Romanzo criminale. 

E di campare di rendita con il binomio Renatino/Emanuela, cioè Enrico De Pedis/Emanuela Orlandi, anche dopo che i magistrati si sono decisi ad accogliere l’invito della vedova ad aprire la bara per controllarne finalmente il contenuto.

Controllo avvenuto  nel maggio 2012, cioè ben sette anni dopo l’esplosione del tormentone. 

Ovviamente nella bara c’era solo il cadavere di De Pedis. Ma ciò non è bastato per porre fine alla persecuzione che lo voleva a tutti i costi e comunque coinvolto nella scomparsa della Orlandi. 

Se non come esecutore per conto di “qualche pezzo grosso del Vaticano” (!!!), almeno come persona chiamata a losche mansioni.

Come pulire il luogo del delitto e far sparire il suo cadavere dopo l’uccisione o la morte accidentale di Emanuela nei sotterranei di S. Apollinare.

Morte avvenuta a conclusione di un’orgia organizzata dal suo rettore (cioè parroco) don Piero Vergari. 

La persecuzione contro De Pedis è arrivata a inventarsi che fosse figlio di don Ugo Poletti, il vicario romano del Papa.

E che suo padre fosse soprannominato Caino perché aveva ucciso il proprio fratello. 

Infine, che nella basilica sono sepolti “santi, Papi e principi della Chiesa”, mentre invece non vi è sepolto neppure un semplice prete.

Enrico De Pedis non era certo uno stinco di santo. Cresciuto a Trastevere, come molti suoi coetanei trasteverini per campare ha esercitato attività illegali. 

Mi risulta che nel suo massimo potere era arrivato a gestire due o tre bische e gestiva una famosa discoteca ristorante vicino via Veneto. 

Ma per poter sposare la donna di cui era innamorato, Carla Di Giovanni, abitante nel vicino quartiere Testaccio, figlia di un dirigente di un’azienda della Regione Lazio, ha dovuto “mettere la testa a posto”.

Condizione che Carla aveva posto in modo irremovibile per diventare sua moglie e per vivere con lui una vita normale. 

Impiegata all’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale del Comune di Roma (ATER), Carla quel lavoro se l’era guadagnato vincendo l’apposito concorso. 

E lo aveva mantenuto fino all’eta della pensione: altro che vita da nababbi coi miliardi della malavita! 

Tanto era stimata Carla all’Ater che il nuovo direttore, nominato dal nuovo presidente ex magistrato Giovanni Tamburino, le ha chiesto più volte di tornare al lavoro anche da pensionata. 

Ma lei non ha potuto farlo perché doveva occuparsi dei suoi anziani genitori. 

Vivevano con lei in un modesto appartamento tra piazza Mazzini e piazzale Clodio. 

Sono morti qualche anno fa: prima il padre e poi un paio di anni fa anche la madre, ultra 90enne. 

Dopo avere tagliato i ponti per volontà di Carla con le vecchie amicizie del giro più o meno malavitoso e con le precedenti attività, De Pedis per vivere s’era messo a commerciare in modernariato. 

Per esempio, in Francia aveva comprato a prezzo stracciato 200 lampade Liberty da rivendere a Roma a caro prezzo. 

Ma gli amici del tempo passato non hanno gradito il suo “tradimento” e non gliel’hanno perdonato. 

E così il 2 febbraio del ’90 gli hanno teso un agguato e lo hanno ucciso sparandogli in via del Pellegrino. 

Carla ha voluto seppellirlo nella tomba che la sua famiglia aveva al cimitero del Verano. 

In carcere a Regina Coeli De Pedis aveva conosciuto don Piero Vergari, un aiutante del cappellano del carcere. 

Tornato libero, don Vergari lo ha aiutato a trovare casa e poi ha celebrato il suo matrimonio nella chiesa della quale nel frattempo era diventato rettore, la basilica di S. Apollinare. 

Quando l’ha presa in consegna la basilica era trascurata da tempo, ma don Vergari ha saputo rimetterla in auge. 

Anche introducendo, caso unico a Roma, il canto gregoriano nelle funzioni religiose. 

Inoltre ha fatto ripulire i sotterranei con l’intenzione di ricavarne una dozzina di stanzette per altrettante sepolture di fedeli affezionati alla sua basilica. 

Ha anche inaugurato la pratica di pranzi periodici per i poveri, cercando anche supporti per i giovani seminaristi extracomunitari dei quali si occupava. 

De Pedis quando poteva aiutava don Piero anche con offerte, soprattutto per i pranzi per i poveri. 

Era preoccupata che oltre ad averlo ucciso i suoi ex amici ne vandalizzassero anche la tomba. 

Così Carla a un certo punto ha chiesto di poter traslare i resti di suo marito nei più sicuri sotterranei di S. Apollinare, la basilica dove si erano sposati felicissimi. 

Come mi ha spiegato quando l’ho conosciuta: 

“Il mio ufficio all’ATER era a soli 200 metri dalla basilica. Perciò potevo andare a trovare Enrico  anche ogni giorno. 

E potevo andare a cambiargli i fiori ogni volta che volevo, in modo che ce ne fossero sempre di freschi. 

Senza dover andare fino al Verano col traffico che c’è sempre a Roma”. 

Il trasferimento della salma diventò nel ’95 motivo di scandalo e di interrogazioni parlamentari da parte della Lega. 

Tanto che ne nacque un’inchiesta giudiziaria condotta dal magistrato Andrea De Gasperis. 

Inchiesta conclusa nel ’97 con la constatazione da parte del magistrato che quella traslazione non aveva nulla di irregolare. 

E neppure di insolito visto che fino a qualche decennio fa la sepoltura di comuni privati nelle chiese di Roma non era un fatto impossibile e non praticato. 

Nel congedare la vedova a fine inchiesta il magistrato fu profetico:

“Signora, questa della tomba di suo marito nella basilica è una storia senza nessuna ombra. 

È tutto chiaro e anche normale. Ma vedrà che prima o poi qualcuno non saprà resistere alla tentazione di trasformarla in un caso clamoroso”.

Questa la realtà dei fatti che io ho potuto verificare in anni di indagini e di colloqui con oltre 200 persone che avevano conosciuto Enrico De Pedis. 

Anni durante i quali ho imparato a conoscere Carla, apprezzandone la dignità, l’onestà, l’abnegazione al lavoro e ai vecchi genitori.

E anche il dolore per non avere potuto avere figli.

E infine lo strazio per la fine di suo marito.

Ucciso e gettato nel tritacarne diffamatorio del circo mediatico che ha ridotto il caso Orlandi a occasione di show, sempre più lugubre e cimiteriale. 

A volte Carla, della quale mi onoro di essere diventato amico, mi diceva sconsolata e sentendosi un po’ in colpa:

“Se non gli imponevo di mettere la testa a posto per sposarlo non lo avrebbero ucciso. 

E se lo lasciavo al Verano non sarebbe successa tutta questa porcheria che mi ha avvelenato in tutti questi anni rovinandomi la salute. 

Non ci sarebbe stata la vergognosa campagna persecutoria per la sua tomba nella basilica. 

Non lo avrebbero diffamato in continuazione come boss della banda della Magliana. 

E non avrebbero sparato la bestialità di rapitore e assassino di Emanuela Orlandi.

Ma in che Paese viviamo? Che razza di giornalismo è questo che me lo ha massacrato in tutti i modi?”.

Riposa in pace, Carla.