Chi l’ha visto? Sciarelli e Ruffini condannati: polemica su indagini a Potenza

di Pino Nicotri
Pubblicato il 21 Gennaio 2013 - 07:05 OLTRE 6 MESI FA
Chi l’ha visto? Sciarelli e Ruffini condannati: polemica su indagini a Potenza

Nei giorni scorsi i giornalisti Federica Sciarelli e Paolo Ruffini sono stati condannati al pagamento di 40 mila euro a testa a un magistrato, il procuratore capo di Potenza Giuseppe Chieco, per una affermazione ritenuta diffamatoria fatta nel corso di un puntata del 2007 del programma di Rai3 “Chi l’ha visto?” dedicata al vecchio giallo dei fidanzati di Policoro. Sciarelli è tutt’oggi la conduttrice di “Chi l’ha visto?” mentre Ruffini all’epoca era il direttore di Rai3. E’ una buona occasione per riparlare di quel giallo e delle cose poco chiare anche per quanto riguarda le indagini.

Doveroso esprimere solidarietà per  Sciarelli e Ruffini. Non c’è solo il carcere, pena che siamo tra i pochi paesi al mondo ad  applicare alla diffamazione a mezzo stampa, per punire e intimidire i giornalisti. Ci sono anche le condanne a pesanti risarcimenti in cause civili con cui, nel caso di Sciarelli e Ruffini, non è facile trovarsi d’accordo.

È però anche una buona occasione per riparlare di quel giallo e delle cose poco chiare anche per quanto riguarda le indagini.Vediamo i fatti che hanno portato alla condanna.

La sera del 23 marzo 1988 i due fidanzati Marirosa Andreotta e Luca Orioli sono stati trovati morti nella casa degli Andreotta a Policoro, paesone sulla costa ionica in provincia di Matera. Come racconta Cronaca-Nera.it

“Quel pomeriggio Marirosa era tornata da Napoli, dove studiava architettura, mentre Luca, studente di giurisprudenza alla Università Cattolica di Milano, era rientrato a Policoro già da qualche giorno per festeggiare l’onomastico di suo padre, Pino.

Antonia Giannotti, la madre di Marirosa Andreotta, la sera del 23 marzo, intorno a mezzanotte è rientrata in casa e in fondo al corridoio ha visto la luce provenire dalla porta aperta del bagno. Quando è arrivata di fronte alla porta, ha visto sul pavimento il corpo disteso di Luca Orioli, mentre il cadavere della figlia galleggiava nella vasca piena di acqua”.

I due corpi presentavano segni evidenti di colluttazione, ma secondo il medico legale i due giovani erano stati fulminati da una scarica elettrica, provocata però da non si sa cosa. Non convinto, il giornalista Nicola Piccenna, redattore del periodico “Il Resto” di Matera, ha sostenuto che gli inquirenti hanno peccato di “non volontà di analizzare i cadaveri”.

Ha scritto Piccenna nel blog Little Swiss:

“Due ragazzi in un bagno con caldaia a gas, riempiono la vasca e chiudono l’acqua, poi svengono contemporaneamente con la porta semi aperta, lei nella vasca con una ferita alla nuca a forma di L di 7,5 x 5 cm, lui per terra disteso supino con un testicolo tumefatto ed un asciugamani perfettamente disteso sotto la schiena, con le labbra semiaperte e circondate da una schiuma bianca”.

E si è chiesto:

“È verosimile ferirsi alla nuca urtando il rubinetto della vasca da bagno mentre si cade stando all’interno della vasca? È verosimile svenire avendo cura di sistemarsi l’asciugamani su cui distendersi? È verosimile trovare in corrispondenza della ferita alla nuca di Marirosa, all’interno del collo, un corpo metallico del diametro di 4-5 millimetri tondeggiante che viene distrutto dal perito della Procura senza interpellare nessuna delle parti? È verosimile che non esistano i negativi delle foto scattate sulla scena del delitto?”.

Piccenna si riferisce alla richiesta di archiviazione, del novembre 2012, presentata dal pm Rosanna Maria Defraia. Defraia, riferisce Piccenna,

“di una cosa è certa e lo scrive chiaramente: “la mancata effettuazione nell’immediatezza dei fatti dell’esame autoptico, avevano irrimediabilmente minato la possibilità di stabilire con assoluta certezza la causa della morte dei due giovani”. La cosa è certamente vera ed è persino noto il nome del magistrato che quell’esame autoptico avrebbe dovuto disporlo. Quali conseguenze avranno le affermazioni della D.ssa Defraia? Potranno essere strumento per chiamare in causa (ed in giudizio) quel magistrato che lei conosce benissimo e di cui si guarda bene dall’indicare nome e cognome?

“Scrive Defraia che “l’ipotesi più verosimile in ordine alla causa del decesso di Luca Orioli e Marirosa Andreotta fosse quella secondo cui i due giovani erano deceduti accidentalmente per avvelenamento da monossido di carbonio”. Avrebbe potuto scrivere che la causa di morte resta ignota, avrebbe potuto scrivere che il perito della Procura ha ritenuto che la causa è l’ossido di carbonio. Ma non può dire che è la più verosimile”.

Che le cose non fossero del tutto chiare lo dimostra il fatto che i corpi dei due giovani sono stati riesumati ben due volte per essere sottoposti alle perizie ordinate dai magistrati, una prima volta nel 1996 e una seconda volta nel 2010. Nel 2010 il giudice per le indagini preliminari (Gip) Rosa Bia ha respinto l’istanza di archiviazione presentata dal sostituto procuratore Defraia. Se per il medico legale i due giovani erano morti fulminati da una scarica elettrica, anche se non se ne capiva l’origine, successivamente il pubblico ministero De Fraia ha chiuso il caso affermando che erano stati soffocati da esalazioni di monossido di carbonio delle caldaie domestiche. Tesi smontata dalla perizia effettuata il 26 ottobre del 1995 presso l’istituto di medicina legale dell’università di Roma “La Sapienza” dai professori Umani Ronchi e De Zorzi.

Nell’aprile 2010, in vista della seconda riesumazione, la criminologa Roberta Bruzzone, responsabile della “Cold case division (Divisione di casi irrisolti)” dell’Accademia internazionale di scienze forensi, in qualità di consulente tecnico della madre di Luca Orioli ha rilasciato dichiarazioni piuttosto pesanti. Ha parlato apertamente di “duplice delitto”, per i quali ha detto di avere delle piste, e ha aggiunto che la Procura non le aveva neppure voluto conoscere.

“Non può trattarsi di morti accidentali” – ha sostenuto la Bruzzone – se non altro per l’incredibile serie di errori che sono avvenuti in questa vicenda, errori che non possono giustificarsi se con la volontà ferrea di alterare la vera natura di quanto accaduto. Più soggetti sono intervenuti e non solo nella esecuzione materiale del delitto”.

La Bruzzone ha dei dubbi anche sulla scena “ufficiale” di quello che ritiene un doppio crimine: “La scena potrebbe non essere il bagno, ma altri ambienti della casa”.

L’avvocato Riccardo Laviola, legale degli Andreotta, ha chiesto al magistrato di individuare l’estetista con cui la ragazza aveva un appuntamento la sera della morte: “Perché lavarsi profondamente in una piccola vasca, se poi si deve andare da un’estetista?”, si è chiesto l’avvocato, aggiungendo: “Viceversa, se si fosse trattato di una doccia veloce, forse il rubinetto dell’acqua calda non sarebbe stato aperto per così tanto tempo da giustificare l’eventuale presenza in quantità letali di monossido di carbonio sprigionato dalle caldaie”. Infine, le mancate indagini sulla Fiat Panda che alcuni testimoni hanno visto allontanarsi da casa Andreotta la sera del 23 marzo ’88.

Sulla base di questi elementi, non trascurabili, “Chi l’ha visto?” in una puntata del 2007 ha mandato in onda un servizio che ipotizzava un depistaggio e il procuratore capo Giuseppe Chieco ha reagito con una querela per diffamazione contro Federica Sciarelli e Paolo Ruffini, ottenendo nei giorni scorsi ragione e il diritto a un risarcimento.

Certamente i giudici che hanno esaminato la causa hanno avuto le loro buone ragioni per decidere nel senso che hanno scelto. Resta però difficile capire alcune cose:

– sono ormai molti i casi di cronaca che dimostrano come non esistano tribunali e procure al di sopra di ogni sospetto;

– ipotizzare un comportamento illecito da parte di una realtà collettiva, quale è un tribunale o una procura, non significa necessariamente attribuirlo al capo di tale realtà né alla struttura nel suo complesso. Ci sono casi di cronaca, come quello recente dei 26 arresti a Napoli, che dimostrano come in un tribunale possano “manovrare” e manipolare a pagamento i fascicoli anche semplici impiegati;

– c’è una sensazione diffusa, per quanto negata dalla Corte di Cassazione, che spesso i risarcimenti dei danni per diffamazione sono più robusti quando il diffamato è un magistrato di quanto non siano per un cittadino qualunque.