Trump e i russi alleati per forza, è la Cina il nemico comune

di Pino Nicotri
Pubblicato il 3 Maggio 2018 - 06:30 OLTRE 6 MESI FA
Donald Trump e i russi contro la Cina

Trump e i russi alleati per forza, è la Cina il nemico comune (Foto Ansa)

WASHINGTON – Tra i due litiganti il terzo non solo gode, ma diventa sempre più potente. I litiganti sono Usa e Russia, mentre il terzo che gode e la Cina. Con gli Usa che perseguono una politica che alla lunga se non proprio suicida somiglia al famoso marito che per far dispetto alla moglie si taglia i testicoli. Ma andiamo per ordine.

La cosa strana è che mentre rischia di dover essere interrogato da un Gran Giurì per il sospetto di amorose tresche con i russi per vincere le elezioni gettando fango sulla concorrente Hilary Clinton, Donald Trump persegue – come i precedenti inquilini della Casa Bianca – una politica che cerca di danneggiare in più modi la Russia, dalla guerra economica al serrare i ranghi della Nato per accerchiarla meglio. La contraddizione è evidente: da una parte lo scandalo del Russiagate, dall’altra la prosecuzione dell’assedio alla Russia sotto forma di nuova Guerra Fredda.

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A battere il chiodo contro Mosca negli ultimi tempi ci sono messi in tandem Trump e il Segretario di Stato Mike Pompeo. Il primo parlando alla Casa Bianca con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il secondo a Bruxelles parlando con i ministri degli Esteri dei vari Paesi della Nato. In soldoni, hanno detto entrambi la stessa cosa: l’alleanza atlantica, cioè la Nato, è fondamentale, e per questo è necessario che l’Europa da una parte spenda di più in armamenti e dall’altra eviti di fare affari con la Russia finché il Cremlino non cambierà quella che per Trump e il suo Pompeo è una “strategia aggressiva”, messa in atto in Siria e con l’Ucraina per la faccenda della Crimea.

In realtà, come spesso accade, è vero il contrario: la strategia aggressiva è quella degli Usa contro la Russia ed è messa in atto anche militarmente proprio in Siria e in Ucraina/Crimea: due crisi pericolose e prolungate innescate a Washington per cacciare i russi dall’unica base navale rimasta loro nel Mediterraneo, il porto di Tartus concesso loro in affitto dal gennaio del 2017 per 45 anni,  rinnovabili, e impedire definitivamente e totalmente a Mosca di potervi accedere dal Mare d’Azov tramite il Mar Nero, col quale comunica tramite lo Stretto di Kerč. Nel Mar Nero il Cremlino aveva la potente flotta omonima, dotata anche di armi atomiche, flotta che ha dovuto cedere quasi totalmente all’Ucraina con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, e ora si è ridotta ad avervi di fatto solo la città turistico vacanziera di Soci e il tratto di costa che collega le sue spiagge e i suoi due porti, quello commerciale e quello turistico, allo Stretto di Kerč. Da notare che lo sbocco nel Mediterraneo, come anche nel Pacifico o nell’oceano Indiano, è un vecchio sogno di Mosca. Che a suo tempo invase l’Afganistan perché pensava poi di proseguire col Pakistan e fino all’oceano Indiano.

Il gioco Usa mira quindi a riportare la Russia indietro di secoli… E non si tratta di una politica transitoria, superabile una volta che a Trump sia succeduto un presidente magari democratico tipo Kennedy od Obama. Si tratta infatti della prosecuzione in forme diverse della stessa politica della Guerra Fredda contro Mosca condotta dalla Casa Bianca fin da quando era la capitale non solo della immensa Russia, ma anche dell’ancor più immensa Unione Sovietica. E se Trump è un repubblicano, Pompeo – che ha diretto la CIA per un anno ed è una delle persone più informate e influenti non solo di Washington – lo è pure lui, ma vanta grande stima e  consenso anche da parte di molti democratici: assai delusi dall’ex Segretario di Stato Rex Tillerson, questi democratici  vedono in Pompeo l’uomo giusto per rilanciare anche in efficienza il Dipartimento di Stato. C’è poco da sperare: la lotta al Cremlino resta uno dei capisaldi della politica estera bipartisan, condivisa cioè da repubblicani e democratici: vale a dire, da quasi tutti gli statunitensi.

Oltre a queste strette militari e territoriali, c’è ovviamente la lotta economico finanziaria. Grazie alla crisi con l’Ucraina e al calo del prezzo del petrolio, reso possibile anche dal fatto che negli Usa hanno iniziato a estrarlo anche dagli scisti bituminosi, detti anche argille petrolifere, la Russia, grande esportatrice di petrolio, si trova in difficoltà nel finanziare il gigantesco piano di sviluppo Razvitie, parola che significa appunto Sviluppo, che mira a fare di una larga fascia siberiana il  volano di un nuovo grande sviluppo e ammodernamento della Russia. Il progetto non punta solo a sviluppare la Siberia fino a trasformarla definitivamente in polmone scientifico e produttivo dell’intera Russia, ma anche ad altro, come ci spiegano gli economisti Mario Lettieri, ex sottosegretario all’Economia del governo Prodi, e Paolo Raimondi, che fanno parte del comitato italiano di sostegno a Razvitie:

“Il progetto è gigantesco e vuole collegare con moderne infrastrutture la costa russa del Pacifico con i Paesi europei fino all’Atlantico. Nel corridoio siberiano, largo in media 100 chilometri, oltre ai trasporti ferroviari e autostradali, sono previsti anche collegamenti continentali con pipeline per il gas, il petrolio, l’acqua, l’elettricità e le comunicazioni. Si prevedono anche collegamenti diretti futuri con la Cina e con il Nord America, tramite la realizzazione di linee ferroviari che, passando attraverso lo Stretto di Bering, potranno collegare via terra la Russia e l’Asia con l’Alaska”.

Ma se i russi puntano, con affanno economico, su Razvitie, i cinesi puntano su alcune antiche Vie della Seta per collegare Asia, Europa e Africa – dove ha presenza crescente – cambiando di fatto il mondo. Vie della Seta alcune delle quali sono complementari a Razvitie, ma per altri versi anche concorrenziali. In questo quadro, che prevede anch’esso opere immense, Pechino stringe buoni rapporti con il Nepal e con la stessa India, che in fatto di armamenti si rivolge da molto tempo sempre a Mosca. Col Nepal è stato firmato un accordo sulla mastodontica iniziativa cinese Belt and Road Initiative (BRI), accordo che prevede di collegare i due Paesi attraverso una rete composta da porti, ferrovie, aviazione, energia e comunicazioni. A proposito di tale rete il ministro degli Esteri cinese Wang Yi di recente ha annunciato:

“Riteniamo che una rete di connettività così ben sviluppata possa inoltre creare le condizioni per un corridoio economico che colleghi Cina, Nepal e India”.

Wang ci ha tenuto a dichiarare che:

“La Cina, il Nepal e l’India sono amici e partner naturali, siamo vicini collegati da fiumi e montagne, un fatto che non può essere modificato dai cambiamenti in atto nel mondo e all’interno dei tre paesi”.

Motivo per cui:

“Cina e Nepal hanno concordato un progetto a lungo termine di una rete di collegamento multi-dimensionale attraverso l’ Himalaya”.

La corte di Wang al Nepal è serrata, nonostante la modestia di definire “emergente” l’economia del suo Paese, che è in realtà la più forte del mondo ( PIL cinese del 2017 = 22.752 miliardi di dollari; PIL degli USA nel 2017 = 19.127 miliardi di dollari ) e in prospettiva lo diventerà sempre di più:

“Il sostegno allo sviluppo del Nepal dovrebbe essere un’intesa comune tra Cina e India, in quanto due importanti economie emergenti offriranno benefici al vicino Nepal che, da parte sua, dovrebbe sfruttare la posizione geografica e collegare Cina e India”.

Ciò non toglie che il Nepal nel 2016 ha firmato con la Cina un trattato di transito che pone fine alla dipendenza dall’India sia per le forniture di materie prime che per l’energia elettrica e che la Cina in Tibet stia realizzando la linea ferroviaria voluta dal Nepal per collega direttamente i due Paesi.

Per non essere del tutto scalzata nell’area, la Russia punta sul Pakistan collaborando alla costruzione di gasdotti a nord e sud  e cercando di facilitare le proprie aziende interessate a investire in Pakistan con joint venture in vari settori:  edilizia, agricoltura, energia, informatica, tessile. Ben poca cosa rispetto la dinamicità e le iniziative della Cina su vari scacchieri e argomenti di enorme importanza anche per il futuro.

Come ha scritto The Economist lo scorso marzo, i temi di conflitto per la supremazia tra Usa e Cina sono molti: mercati on-line; hardware; supercomputer; computazione quantistica; navigazione satellitare; intelligenza artificiale; armamenti avanzati; sicurezza nelle telecomunicazioni; potere di imporre gli standard internazionali.

E’ da tempo che Pechino ha il primato mondiale (anche) nel processo di produzione di  importanti beni di consumo, con in testa il monopolio di fatto nei settori dei computer e dei cellulari. Apple si è basata ed è cresciuta col tandem design occidentale (USA)-tecnologie orientali (Cina). Ma il gigante asiatico oggi può fare da solo, come dimostrano il successo di aziende come Huawei e Xiaomi e di Lenovo con design sperimentali. Le aziende orientali possiedono una capacità di ideazione originale che le rende competitive. Il protezionismo riesumato da Trump verso Huawei ha al centro il controllo della prossima rete 5G, cioè di quinta generazione, per la trasmissione dati Internet mobile. Il colosso Huawei intende guidare i nuovi scenari della connessione alla Rete, tanto che oltre a investirvi cifre imponenti ha anche ingaggiato esperti di rivali stranieri perché guidino i gruppi internazionali decisivi per stabilire gli standard tecnici per il wireless futuro.

Uno studio accurato della Commissione Europea riguardante il 2016 dimostra che la Cina in quell’anno ha prodotto:

– il 28% delle automobili del mondo (poco meno di un veicolo su tre);

– il 90% di tutti i cellulari;

– l’80% di tutti i computer, e cioè quattro su cinque;

– l’80% di tutti i condizionatori del pianeta;

– il 60% di tutti i televisori assemblati sul nostro pianeta, ovvero più della metà totale;

– il 50% dei  frigoriferi fabbricati su scala globale;

– più del 40% delle navi costruite nel mondo intero.

Tutto ciò ha permesso alla Cina di diventare a lungo, non dimentichiamolo, il primo acquirente e detentore di titoli del debito pubblico USA, superato solo di recente dal Giappone, anche se  dall’inizio di quest’anno Pechino  ha deciso di rallentare o interrompere del tutto l’acquisto di Treasuries Usa.

Mentre il gigante asiatico espande a velocità sostenuta la propria economia e le proprie capacità scientifiche e tecnologiche, oltre a quelle militari, un’occhiata alla carta geografica aiuta a capire di più. La Cina si estende su 9.572.900 chilometri quadrati sui quali vivono 1 miliardo e 385 milioni di persone, anche se pare che in realtà ci siano almeno altri 25 milioni di cinesi, soprattutto femmine, la cui nascita non è stata dichiarata all’anagrafe  perché nati quando la legge vietava di avere più di un figlio. La Russia, il più grande Stato del mondo, ha una superficie di oltre 17 milioni di chilometri abitati da appena 187 milioni di persone. Ovvero: il territorio della Cina è grande poco più della metà di quello della Russia, ma è abitato da 7,4 volte gli abitanti di quest’ultima.

La scarsa demografia russa non è certo aiutata dal forte consumo di alcolici, ovviamente Vodka soprattutto. I russi danno il meglio di sé in condizioni di grande emergenza, come dimostra la loro Storia, i cinesi invece si danno da fare di più in ogni condizione: non hanno mai avuto fama di battere la fiacca. La pressione demografica cinese è geograficamente continua alla rarefatta demografia russa. E una ferrea legge fisica, che non ammette eccezioni, afferma anzi dimostra che le pressioni forti tendono inevitabilmente a occupare lo spazio di quelle deboli. Non a caso la Cina guarda con interesse alla Siberia, che una volta era la palla al piede della Russia, mentre oggi ne è un volano dello sviluppo.

Nel marzo 1969 truppe russe e cinesi – nonostante i rispettivi Paesi fosse entrambi comunisti – si diedero battaglia  lungo il fiume di confine Ussuri per il possesso di due isole che fino alla fine dell’800 erano state cinesi. Con l’uso dell’aviazione e dell’artiglieria pesante vinsero i russi, ma le forze armate cinesi di quell’epoca erano ben poca cosa e certo non quelle di oggi.

La Cina però rispetto l’aggressività europea e occidentale ha più di un punto debole:

– La Cina non ha una religione fondata su divinità. Il suo confucianesimo –  basato sugli insegnamenti del filosofo Kongfuzi, cioè del Maestro Kong, vissuto tra il 551 e il 479 a. C. –  conosciuto in occidente con il nome latinizzato di Confucio  – è rimasto immutato da quando esiste, cioè da 2.500 anni, ed è più che altro una religione civile, una dottrina umanista, i cui  principi fondamentali sono incentrati sull’osservanza di norme rituali che ribadiscono il valore delle gerarchie e delle convenzioni sociali e che indicano la via per una retta condotta e per il raggiungimento dell’armonia con l’esistente, cioè col mondo sociale e naturale e con l’intero cosmo. Non avendo una religione né di stampo monoteista né politeista la Cina non ha mai prodotto fanatismi “religiosi” utili a giustificare violenze e guerre, come è invece successo in Occidente e Medio Oriente.

– La Cina non ha mai colonizzato terre e popoli altrui. Non ha quindi una storia colonialista, ha sempre confucianamente preferito stipulare accordi politico commerciali, anche nei suoi contatti africani.

– Anche se gli ideogrammi sono solo il 4% degli almeno 40 mila caratteri dell’”alfabeto” cinese, l’intero sistema di scrittura cinese indica – in linea con il confucianesimo – una visione ordinata dell’esistente, e quindi una scarsa propensione a scardinarlo. Luigi Borzacchini nel suo libro “Il computer di Platone”  fa rilevare che il nostro pensiero formale è stato solo sfiorato dalla pur grande cultura cinese. Ma se e quando la Cina dovesse adottare l’alfabeto e i caratteri occidentali, cioè i nostri, latini, che permettono di costruire e cambiare il senso delle parole con prefissi, suffissi e affissi a partire dai pochi caratteri del nostro alfabeto, e di costruire frasi  lunghe a piacimento piegando quindi l’esistente alle nostre esigenze di indagine e narrazione, e di conseguenza anche di potere, con tutto ciò che ne consegue, allora lo sviluppo cinese potrà essere molto più impetuoso. Il che è tutto dire…

Stando così le cose, è difficile capire il senso della politica trumpiana di prosecuzione e rafforzamento dell’inimicizia e dell’antagonismo con la Russia anziché semmai allearsi con lei in funzione anti cinese. La politica proseguita e rafforzata da Trump favorisce di fatto pur senza volerlo la Cina, alla lunga anche territorialmente. E ancor meno lo si capisce alla luce del fatto che i quartieri cinesi – le Chinatown rese famose nel 1974 dal film omonimo – sono molto comuni nelle città statunitensi (ma anche in quelle del Canada e dell’America Latina, oltre che dell’Australia, dell’Asia orientale e del sud-est, e in misura minore in Europa, Nord Africa e Sud Africa).