Emanuela Orlandi, Marco Fassoni Accetti e la “bionda tedesca”. Versione che non sta in piedi

di Pino Nicotri
Pubblicato il 16 Marzo 2015 - 08:17 OLTRE 6 MESI FA
Emanuela Orlandi, Marco Fassoni Accetti e la "bionda tedesca". Versione che non sta in piedi

foto d’archivio

ROMA – La fine del mese di marzo 2015 si avvicina e con essa si avvicina la chiusura dell’inchiesta sul mistero di Emanuela Orlandi, che dovrebbe essere formalizzata prima dell’inizio di aprile. Che ne sarà, in particolare, del cosiddetto “supertestimone” che ha fatto trovare alla redazione di “Chi l’ha visto?” il cosiddetto “flauto di Emanuela Orlandi”? Che ne sarà cioè di Marco Fassoni Accetti, il fotografo e regista romano che per il suo nome d’arte ha scelto di aggiungere al proprio il cognome materno Fassoni, che si è auto accusato di avere organizzato il “rapimento consenziente”, e quindi finto, di Emanuela e della sua coetanea Mirella Gregori. Rapimento finto e, a detta di Fassoni Accetti, organizzato nel contesto della lotta tra due “fazioni vaticane”, al servizio di una delle quali lui dice di essere stato. E, infine, rapimento che, sempre a detta di Marco Fassoni Accetti, sarebbe dovuto durare solo pochi giorni, ma finito chissà come visto che delle due ragazze non se n’è saputo mai più niente.

Appare assai improbabile che Marco Fassoni Accetti venga rinviato a giudizio per la scomparsa delle due ragazze anziché, eventualmente, per reati di tutt’altro stampo consistenti nell’avere intralciato la giustizia.

Il particolare che mina alla base le “rivelazioni” di Accetti è il suo racconto delle ore del 20 e 21 dicembre 1983 che vanno più o meno dalle 19:40 del giorno 20, quando alla guida di un furgone Ford Transit investì e uccise il ragazzino Josè Garramon nella pineta di Castelporziano , alle ore del mattino successivo, quando i carabinieri che cercavano di capire chi avesse investito mortalmente il giovanissimo Garramon lo fermarono verso le 5 – per poi trattenerlo in arresto poche ore dopo – a bordo della sua auto in compagnia di un’amica romana, Patrizia D. B. mentre cercava di rintracciare il posto, a 5 chilometri dal luogo dell’investimento, dove la sera prima aveva nascosto il furgone. Che a causa del violento urto con il ragazzino aveva il cofano molto ammaccato e il parabrezza completamente distrutto. Fassoni ha raccontato ai magistrati che al momento dell’investimento era in compagnia di una giovane bionda tedesca, soprannome Ulrike, ammanicata con la Stasi (i servizi segreti dell’allora Germania comunista):

“Quella sera nella pineta di Castel Porziano, quando con il furgone investimmo Josè Garramon, in un primo momento non ci accorgemmo di aver colpito un essere umano. La ragazza tedesca che si trovava a bordo con me era armata. Pensavamo che dalla boscaglia ci avessero tirato addosso qualcosa, tanto che lei sparò due colpi di pistola in aria. E ricordo anche che, subito dopo, telefonò al 113…”.

Versione che per gli inquirenti – e per la logica – non sta in piedi per vari motivi:

il furgone aveva il cofano troppo ammaccato, e il parabrezza distrutto, per poter pensare che anziché avere investito una persona fossero rimasti vittime del lancio di “qualcosa dalla boscaglia”. Dalla boscaglia più che una pietra non poteva certo essere lanciata. Ma un pietra non riduce il cofano di un furgone in quelle condizioni: basta guardarlo per almeno sospettare di avere investito una persona. Tanto più che a sfondare il parabrezza è stato proprio il corpo del ragazzino investito, che, rilanciato dall’urto col parabrezza sopra il Ford, è finito sull’asfalto dietro l’automezzo. Potrebbe essere stato distratto e non accorgersi di nulla Accetti, ma difficile credere che siano stati così distratti sia lui che la sua compagna di viaggio. Che, oltretutto, non doveva essere un tipo così distratto, visto che a detta di MFA collaborava con la Stasi…

Marco Fassoni Accetti fermò il furgone a meno di 200 metri dopo l’investimento, cioè allo stop che immetteva in perpendicolare la strada asfaltata dell’investimento con un’altra strada asfaltata. Proprio di fronte allo stop c’era e c’è tuttora un bar. Se la misteriosa bionda avesse davvero sparato, è da presumere che i baristi e magari anche qualche cliente lo avrebbero riferito alla polizia stradale e ai carabinieri attivati per l’uccisione di un giovane a meno di 200 metri di distanza.

Strano che Marco Fassoni Accetti sia andato a nascondere il furgone a 5 chilometri di distanza anziché portarlo a Roma insieme con la “bionda tedesca”. Infatti, una volta tornato a Roma in autobus, Accetti ha cercato una sua amica, Patrizia D. B., perché lo accompagnasse a cercare il furgone proprio per riportarlo a Roma. Perché non riportarcelo direttamente con la “bionda”, evitando così complicazioni e perdite di tempo ?

– Accetti ha sempre detto che lui voleva farsi arrestare per poter contattare in carcere il terrorista turco Alì Agca, detenuto per avere sparato nell’81 a papa Wojtyla in piazza S. Pietro. Il motivo del contatto era per convincerlo a evitare di raccontare la verità sull’attentato al pontefice. Attentato che secondo la vulgata che va per la maggiore, ma che non ha mai trovato riscontri, vuole Agca ingaggiato dai servizi segreti dell’allora comunista Bulgaria su decisione dell’allora esistente Unione Sovietica. Ma allora perché Marco Fassoni Accetti la mattina del 22 ha fatto di tutto per NON finire in galera? Accetti infatti non solo ha mentito a lungo ai carabinieri che lo interrogavano, preoccupati anche che lui e la ragazza potessero avere delle brutte intenzioni riguardo un magistrato che abitava nei pressi (Severino Santiapichi, impegnato tra l’altro nel processo per il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro), ma quando la sua auto è stata fermata ha detto ala sua amica Patrizia di far finta che fossero una coppietta tiratardi. Se Accetti quella mattina, nonostante le sue bugie ai carabinieri sui motivi della loro presenza in quella zona, è stato infine arrestato è solo ed esclusivamente perché la sua compagna d’auto, Patrizia, interrogata in separata sede, stanca di essere trattenuta così a lungo senza motivo, ha protestato vivacemente:

“Tutto questo casino per un semplice furgone guasto! E da ore che lo stiamo cercando”.

La parola “furgone” ha fatto rizzare le orecchie ai carabinieri e cambiato lo scenario. Gli uomini dell’Arma hanno fatto presto ad appurare che il furgone era proprio il veicolo che stavano cercando da ore per l’investimento mortale di Josè Garramon. Motivo per cui hanno arrestato Marco Accetti. Che altrimenti l’avrebbe fatta franca. Nessuno sarebbe risalito a lui per l’uccisione del ragazzino. A far finire in galera e sotto processo per omicidio MFA è stata dunque Patrizia. Verso la quale è presumibile che MFA abbia maturato del risentimento, anche se, dopo un anno di carcere e altre peripezie, è stato condannato per omicidio colposo anziché volontario.

Ci sono altri particolari che rendono poco credibile le “confessioni” di Accetti, già di per sé poco credibili per l’assurdità del doppio “finto sequestro concordato”. Per ora però limitiamoci al più macroscopico. Marco Fassoni Accetti ha “confessato” ai magistrati che a Emanuela e a Mirella era stato raccontato che i loro padri avevano dato il permesso che stessero qualche giorno fuori casa, per il finto sequestro, in cambio di un aiuto. L’aiuto per Ercole Orlandi, papà di Emanuela, sarebbe consistito nell’evitare che avesse dei guai per l’asserita, ma mai provata, partecipazione di Agca alle udienze papali, cosa che – sempre a dire di Accetti – poteva costargli l’accusa di omissione di controllo. Per Paolo Gregori, papà di Mirella, l’aiuto sarebbe consistito invece nel saldargli i debiti. Non c’è bisogno di essere dei geni per capire che è semplicemente assurdo che, una volta sparite le figlie, né i padri né le madri abbiamo taciuto ai magistrati un particolare così eclatante. Oltretutto, per recuperare le figlie sarebbe bastato che dicessero agli inquirenti con chi avevano parlato per mettersi d’accordo per la loro “assenza di qualche giorno”.

Degli altri particolari fin troppo sospetti, se non decisamente non credibili, parleremo un’altra volta.