Emanuela Orlandi, i segreti dietro al segreto: trattative, dossier, tombe…

di Pino Nicotri
Pubblicato il 18 Maggio 2018 - 06:35 OLTRE 6 MESI FA
emanuela orlandi ansa

Le figlie di Pietro, il fratello di Emanuela Orlandi, con un’ immagine di Emanuela Orlandi durante il Corteo silenzioso

Emanuela Orlandi, 35 anni dopo la sua scomparsa, due tormentoni agitano [App di Blitzquotidiano, gratis, clicca qui,- Ladyblitz clicca qui –Cronaca Oggi, App on Google Play i patiti del mistero, nell’attesa di quel botto clamoroso sempre annunciato e mai udito:

1) – il “dossier segreto” contenente “la verità” sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, chiuso in qualche cassaforte a prova di bomba della Segreteria di Stato vaticana;
2) – la “trattativa” del magistrato Giancarlo Capaldo col Vaticano, sfociata nel patto in base al quale lui avrebbe fatto spostare la salma di Enrico De Pedis dalla basilica di S. Apollinare e il Vaticano gli avrebbe consegnato il fantomatico dossier.  Con il quale Capaldo avrebbe finalmente chiuso in bellezza la sua lunga inchiesta sul mistero Orlandi. 
Ma come sono nati questi due ulteriori miti del mistero Orlandi? E’ una storia interessante, per vari motivi, vale quindi la pena raccontarla fin dall’inizio.
Nel 1993 – cioè dieci anni dopo la scomparsa di Emanuela – il giudice istruttore Adele Rando, che indaga sul mistero Orlandi, convoca per il 13 ottobre come testimone l’ingegner Raul Bonarelli, vice capo della Vigilanza del Vaticano. Alle ore 19:53 del giorno prima squilla il telefono – sotto controllo – dell’auto di Bonarelli.
A chiamare è il Vaticano, la conversazione è intercettata e nella registrazione – pubblicata per intero su L’Espresso del 1998 da Roberto Chiodi e da me riportata nel 2002 e nel 2014 in due miei libri – si sente che chi ha chiamato l’ingegnere lo ha fatto per raccomandargli di non dire al magistrato che la vicenda Orlandi “è andata alla Segreteria”. 
L’espressione fa legittimamente pensare che la Segreteria di Stato vaticana sul mistero Orlandi possa quindi avere davvero un dossier. Che però può contenere tanto “la verità” quanto una semplice raccolta di articoli di giornale e appunti vari senza nessuna “verità” conclusiva. Per esempio, ogni giornale aveva nei suoi archivi il suo bel dossier sulla vicenda, a base di articoli, inchieste, appunti, ecc., ma senza nessuna “verità”. A L’Espresso, dove lavoravo, il dossier consisteva in un paio di bei faldoni, alimentati dagli archivisti. Nulla esclude che la stessa cosa possa essere avvenuta di routine in Vaticano, dove oltretutto c’è anche la redazione di un giornale, L’Osservatore Romano.
Dopo un mese e mezzo, per l’esattezza il 3 dicembre, i giudici istruttori Adele Rando (per l’inchiesta Orlandi) e Rosario Priore (per l’inchiesta sugli eventuali complici di Agca nel suo attentato del 1980 al Papa) interrogano come testimone monsignor Francesco Salerno, negli anni Ottanta consulente legale presso la Prefettura degli affari economici della Santa Sede e in seguito canonico onorario della basilica di San Giovanni in Laterano. Monsignor Salerno ai magistrati ha dichiarato: 
“Prendo atto di quanto mi si fa rilevare, e cioè che gli inutili tentativi di identificare gli sconosciuti interlocutori telefonici, che telefonavano sulla linea riservata messa a disposizione della Segreteria di stato, portano oggettivamente a ritenere che all’interno della Segreteria stessa, o comunque in quegli uffici, vi potesse essere taluno che informava tempestivamente gli interlocutori telefonici. Sul punto non sono ovviamente in grado di fornire alcuna utile spiegazione, ma ritengo che negli archivi della Segreteria di Stato siano custoditi documenti relativi alla vicenda di cui ci occupiamo e che forse potrebbero essere chiarificatori in tal senso”.  
A leggere con calma le parole di don Salerno, senza preconcetti e senza lasciarsi prendere da suggestione ed eccitazione, appare chiaro che lui più che riferirsi a documenti “che forse potrebbero essere chiarificatori” riguardo la sorte di Emanuela si riferisce invece all’identità di chi “informava tempestivamente gli interlocutori telefonici” oppure  all’identità di questi stessi interlocutori. 
Il 4 maggio 1998 il comandante delle Guardie Svizzere vaticane Alois Estermann, sua moglie Glady Moza Romero e il vice-caporale Cédric Tornay vengono rinvenuti uccisi con colpi di arma da fuoco nell’appartamento dei coniugi in Vaticano. A sparare uccidendo e poi suicida è stato il vice-caporale. Quali che siano i motivi che lo hanno spinto a sparare, gelosia nel menage a trois o rabbia per una mancata promozione, ecco che comincia a circolare con insistenza la “notizia” che si deve essere trattato di un massacro per far sparire il dossier su Emanuela… 
Si comincia così a parlare esplicitamente di “dossier del Vaticano su Emanuela”. Suspence e mistero aumentano quando  un sardo che sostiene di essere un membro di Gladio – l’organizzazione segreta della NATO composta da militari e civili – “rivela” che il povero Estermann era una spia, nome in codice Werder, al servizio della Stasi, il potente servizio segreto della Germania comunista.  Notizia che in seguito è stata smentita anche dagli ex dirigenti della stessa Stasi, ma in ogni caso non si capisce perché massacrare tre persone per mettere le mani su un dossier se poi lo si tiene a prendere la polvere nei cassetti. Visto oltretutto che la polvere la stava già prendendo nei cassetti del Vaticano. Ma tant’è…
Si riparlerà del dossier solo 14 anni dopo, quando nel 2012 verrà arrestato Paolo Gabriele, il maggiordomo di Papa Ratzinger, con l’accusa di avere sottratto chili di documenti vaticani per passarli al giornalista Gianluigi Nuzzi per il suo libro “Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI”, pubblicato il 18 maggio di quell’anno. Trattandosi di documenti fatti sparire anche dall’archivio del Papa, l’occasione è troppo ghiotta: l’ideale per rilanciare la “notizia” del “dossier segreto con la verità su Emanuela”. Come possa averlo il Papa se è stato fatto sparire dal Vaticano nel ’98, assassinando tre persone, è un altro mistero. Ma tant’è: mistero più, mistero meno…
Ed ecco che nel 2016 col film di Roberto Faenza “La verità sta in cielo” riemerge prepotentemente dalla polvere del dimenticatoio il famoso dossier, la cui esistenza viene garantita e dimostrata non da prove rese pubbliche, bensì dal fatto che a dire del film il dossier “della verità” è stato promesso dal Vaticano al magistrato Capaldo in cambio del trasloco della salma di De Pedis dalla basilica di S. Apollinare. La rivelazione viene attribuita alla fine del film allo stesso Capaldo, che l’ha confermata con un’apposita intervista per il trailer, che lamenta di essere stato gabbato: il trasloco c’è stato, ma il dossier non gli è stato consegnato. Dimessosi dalla magistratura per protesta contro l’archiviazione della sua inchiesta dopo anni di clamori privi di costrutto,  Capaldo dimentica però alcune cose:
1) – lui NON aveva nessun potere di spostare la salma dalla basilica, dato che lo potevano fare solo i familiari di De Pedis trattandosi di una loro proprietà privata. Tant’è vero che il vice capo della Gendarmeria Vaticana, colonnello Costanzo Alessandrini,  nell’aprile 2012 ha chiesto e ottenuto un incontro con la vedova Carla Di Giovanni  promettendole di tutto purché ordinasse il trasloco:
“Ci chieda in cambio tutto quello che vuole, qualunque cosa. Non ne possiamo più della continua rottura di scatole di Pietro Orlandi a tutti qui in Vaticano e del suo baccano fuori Vaticano per creare uno scandalo contro la sepoltura di suo marito in S. Apollinare”.
Il colonnello Alessandrini ha usato la carota, ma il suo capo, Domenico Giani, aveva tentato col bastone: aveva infatti telefonato ai legali  della Di Giovanni – Lorenzo Radogna e Maurilio Prioreschi – per chiedere il trasloco e quando gli è stato risposto che prima volevano l’apertura della bara è sbottato: 
“Ma allora volete la guerra!”.  
Dopo le minacce di Giani e le blandizie del suo vice Alessandrini,  i due avvocati sono corsi a raccontare tutto al  Procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone, insediato da poco tempo. Che per non perdere altro tempo ha deciso di scavalcare Capaldo ordinando l’apertura della bara e i vari controlli. Decisione subito comunicata anche al Vicariato di Roma, da tempo impegnato a far pressione sulla Procura per conto del Vaticano. 
2) – Erano infatti anni che Carla Di Giovanni aveva deciso di spostare la tomba, ma per evitare si potesse poi dire che l’aveva spostata per nascondere chissà che cosa aveva chiesto insistentemente a Capaldo che PRIMA di spostarla venisse aperta per controllarne il contenuto. Ricordiamo infatti la baraonda che s’è scatenata da quando nel settembre 2005 “Chi l’ha visto?” ha mandato in onda la famosa telefonata anonima secondo la quale per sapere la verità su Emanuela Orlandi si doveva andare a controllare cosa c’era nella tomba di De Pedis.
Capaldo ha parlato con il rettore della basilica, don Pedro Huidobro (i parroci delle basiliche si chiamano rettori), che ha riferito al Vicariato di Roma, già in agitazione perché l’apposita riunione ad alto livello del 26 aprile 2012 s’era conclusa con la presa d’atto dell’impossibilità di imporre il trasloco.
I FATTI dimostrano che NON c’è stata nessuna trattativa Capaldo-Segreteria di Stato, checché continuino a sostenere sotto i riflettori televisivi Pietro Orlandi&C.
E’ però istruttivo, fors’anche divertente, notare come la favola della trattativa sia nata dall’avere voluto forzare in modo sensazionalista e strumentale, da parte dei soliti noti, una serie di articoli di Blitz a partire da quello del 13 ottobre 2011. Tale articolo spiegava che  Papa Ratzinger desiderava da tempo andare a visitare l’Università della Santa Croce, istituita dall’Opus Dei nel Palazzo di S. Apollinare – proprio quello che a suo tempo ospitava la pontificia scuola di musica frequentata dalla Orlandi – ma che per evitare il prevedibile battage e le speculazioni malevole della stampa preferiva aspettare il trasloco della sepoltura di De Pedis dalla basilica, nata come cappella dell’omonimo e contiguo Palazzo.
Poiché ovviamente Ratzinger voleva aspettare il meno possibile, qualcuno ha cominciato a pensare ci fosse una trattativa per accorciare i tempi, fino a convincersi dell’esistenza del patto dello scambio dossier Orlandi/trasloco De Pedis. A far nascere il sospetto di questo patto, un “do ut des” presentato infine come certezza, è stato in particolare il citato incontro avvenuto il 26 aprile 2012. Avvenuto cioè pochi mesi dopo la notizia data da Blitz del desiderio di Ratzinger di poter visitare l’Università dell’Opus Dei in santa pace. Senza suscitare un vespaio.