Facebook e social network come super stati: bannano presidente Usa, non pagano diritti d’autore, nessuno li ferma

di Pino Nicotri
Pubblicato il 21 Febbraio 2021 - 09:16 OLTRE 6 MESI FA
Facebook e social network come super stati: bannano presidente Usa, non pagano diritti d'autore, nessuno li ferma

Facebook e social network come super stati: bannano presidente Usa, non pagano diritti d’autore, nessuno li ferma

Facebook e gli altri social network agiscono come super stati. Ormai il problema delle espulsioni a loro insindacabile giudizio è diventato di pubblico dominio. E con fragore quando Donald Trump bannato è stato sospeso prima da Facebook e Instagram e poi anche da Twitter. Bannato per presunto mancato rispetto del divieto di pubblicare contenuti con messaggi “di incitamento all’odio”.

Tutta la “sinistra” che aveva e ha tuttora Trump in forte antipatia ha applaudito felice in coro, eccetto qualche eccezione che conferma la regola.

Non tutti hanno capito la gravità della situazione e le implicazioni che decisioni di questo genere, prese d’autorià dai vertici delle aziende USA, possono avere sulla democrazia in tutto il pianeta.

Finché qualcuno ha cominciato ad avere dei dubbi. E, di conseguenza, s’è posto e ha posto una domanda tanto semplice quanto dovuta.  Facebook Instagram, Twitter e tutti gli altri social possono espellere un iscritto, cancellare cioè un account, a loro insindacabile giudizio?

Una frase attribuita a Voltaire che Facebook applica al contrario

Qui non si tratta di citare Voltaire e la sua celebre frase:

“Non sono d’accordo con quello che dici, ma darò la vita perché tu possa dirlo”. 

Frase peraltro che Voltaire non si è mai sognato di pronunciare, esattamente come la famosa frase “Non hanno pane? Che mangino brioche” attribuita alla regina Maria Antonietta per giustificarne ex post la condanna alla ghigliottina. Scritta in inglese:

 “I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it”,

la frase è stata generosamente attribuita a Voltaire in un slancio di ammirazione dalla scrittrice Evelyn Beatrice Hall, che la pubblicava con lo pseudonimo S.G. Tallentyre, nella sua biografia del famoso personaggio francese intitolata Gli amici di Voltaire, uscita nei primi anni del secolo scorso. 

Il problema invece è un altro. È vero che Facebook, Instagram, Twitter e tutti gli altri social sono in realtà aziende private che di social hanno solo il nome. E secondo la stragrande maggior parte di chi si occupa di queste faccende il fatto che siano private le autorizza a decidere come meglio credono. Se espellere o sospendere chicchessia chiudendone il relativo account.

Facebok e i social come stati sovrani

Ma è un discorso “legalitario” che di legalitario ha poco o niente, formalismi e inammissibili vuoti legislativi a parte. Anche i bar, i ristoranti, le linee aeree, ferroviarie, navali e i taxi sono proprietà private. Ma nessuno, in nessuna parte del mondo, può permettersi di decidere chi può e chi invece non può ordinare e consumare un caffè o un pranzo, viaggiare in treno, aereo, nave o salire su un taxi. Tutti luoghi, si badi bene, sociali. Cioè social! Anche se si usa la dizione “pubblici”, “aperti al pubblico”. 

Il problema vero è che le legislazioni dei vari Paesi sono in ritardo rispetto il fenomeno dei social network. A differenza dei locali e dei mezzi di trasporto “social”, i cosiddetti social NON sono regolamentati da leggi – NEPPURE in tema di riproduzioni di articoli giornalistici altrui e di diritti d’autore! – e non sono soggetti a concessione di licenze.

Che possono anche essere revocate in caso di comportamenti scorretti. Come per esempio decidere di escludere qualcuno dal proprio specifico servizio. Se ci si comporta male, si può essere anche cacciati da bar e ristoranti o fatti scendere dai mezzi di trasporto, ma certamente NON a vita e comunque poi spetta alla magistratura la decisione finale. A decidere di inibire l’ingresso negli stadi ai tifosi teppisti non sono le squadre di calcio o le società padrone degli stadi, ma il magistrato.

I cosiddetti social invece fanno quello che vogliono. Anche, ripetiamo, nel campo della riproduzione di articoli di giornale. Per i social il diritto d’autore NON esiste. Almeno fino ad oggi. In futuro le cose possono anche cambiare perché qualcuno, come vedremo meglio tra qualche riga, ha cominciato a sollevare il problema e a battere cassa.

Facebok condannata per una foto di Mussolini

Per avere sospeso l’account di un cittadino italiano colpevole di avere pubblicato una foto di Benito Mussolini e la bandiera della sua Repubblica Sociale Italiana Facebook e stata condannata a pagare 15 mila euro di danni e 8 mila di spese legali.

Le motivazioni della sentenza possono non piacere, o anche fare incazzare. Ma sono inoppugnabili. Perché assolutamente corrette e scevre da obnubilazioni per passioni politiche di parte. Cominciano anche le condanne a pagare il diritto d’autore.

A me qualche anno fa è capitata una sospensione di una mese da Facebook particolarmente assurda. Avevo postato nella pagine del mio profilo il PDF di una lunga serie di insulti e diffamazioni scritte contro di me da un gruppo Facebook. E mi è stato impossibile difendermi spiegando a Facebook l’assurdità della cosa perché ogni volta che cliccavo il tasto Invia per spedire la mia spiegazione compariva SEMPRE il seguente avviso: “Invio non riuscito. Riprova più tardi”. Una presa in giro perpetua. Finché ci ho rinunciato.

A un iraniano che si è laureato in ingegneria a Milano e che ho conosciuto in Iran, Mostafa Milani, Facebook ha chiuso non so quante volte il profilo, senza nessuna spiegazione. Ha perso il conto anche lui. Essendo un hojatoleslam, grado della gerarchia sciita inferiore solo a quello di ayatollah, aveva cominciato a spiegare il corano in lingua italiana e intendeva farlo anche tramite lezioni in video realizzati apposta da lui. Senza neppure l’ombra di una spiegazione, Facebook lo ha bloccato. 

Facebook ha chiuso il profilo del doge

Nei giorni scorsi Facebook senza fornire nessuna spiegazione ha chiuso anche il profilo di Albert Gardin, eletto il 22 ottobre 2016 CXXI Doge di Venezia da un auto nominatosi Gran Consiglio di 120 nostalgici. Gardin è da sempre, ben prima che nascessero la Liga Veneta di Franco Rocchetta e la Lega di Umberto Bossi, uno strenuo assertore della necessità di ricreare la Serenissima Repubblica Veneta, ovviamente autonoma dall’Italia.

Discretamente attivo anche in campo internazionale, il giorno 6 dell’attuale mese di febbraio Gardin e membri del Gran Consiglio hanno messo in piedi a San Pietroburgo il Comitato per le Relazioni Veneto-Russe. Composto da cinque esponenti della cultura veneta e cinque della cultura russa, il Comitato ha “la Presidenza onoraria del Doge [cioè di Gardin] e del Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin”. La Segreteria del Comitato è composta da un veneto, Sergio Rolle – “portavoce dell’Ufficio Dogale”, cioè del Doge – e da un russo, il professore Boris Nabokov.

Obiettivo del Comitato? Ce lo spiega Gardin, il CXXI Doge:

“Premetto che il Comitato è il risultato di frequentazioni e di un impegno politico e culturale già in corso da tempo. L’obiettivo è presto detto. Operare per un’Europa unita, dall’Atlantico al Pacifico, coesa, indipendente e capace di difendere la sua civiltà cristiana e la sua sovranità politica ed economica. E, prioritariamente, quello di ristabilire un rapporto diplomatico tra le Nazioni veneta e russa. Il Comitato sarà perciò impegnato a contrastare la divisione dell’Europa e il tentativo di destabilizzare la democrazia russa”.

L’eliminazione di Gardin da Facebook è avvenuta mentre era in via di preparazione la manifestazione straordinaria da tenere a Padova il 25 aprile, giorno di S. Marco Evangelista patrono di Venezia, e della Liberazione dal fascismo. Giorno che Gardin e il Gran Consiglio intendono far diventare

 “Festa di San Marco e Festa della Repubblica Veneta per rendere pubblica la volontà dei veneti di riorganizzarsi in una Repubblica Veneta che torni ad essere libera, indipendente e sovrana, protagonista di un risveglio e di una rinascita europea”.

I morti polacchi bannati anche loro da Facebook

Ciliegina sulla torta, Facebook ha bloccato l’accesso per qualche giorno anche la pagina in lingua inglese dell’Istituto Polacco della Memoria Nazionale, istituzione nata per documentare i crimini dei nazisti e quelli dei sovietici commessi in Polonia anche su cittadini non ebrei.

Motivo del blocco? Forse un post sull’espulsione forzata attuata dalla Germania della popolazione polacca della regione di Zamosc”. L’istituto con un comunicato ha attribuito invece il blocco a un post di Facebook di ben sette mesi prima sul rapimento di bambini polacchi da parte della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale:

“Nel post basandoci su documenti autentici abbiamo scritto dei piani tedeschi per germanizzare i bambini polacchi”.

A gennaio l’Istituto s’è visto bloccare da Facebook il suo video sulla sorte di 3 mila bambini polacchi imprigionati in un campo di concentramento tedesco nella città di Lodz. 

Tanta vigilanza occhiuta, e spesso assurda, si contraddice dal momento che Facebook ammette la costituzione di gruppi chiusi e perfino di gruppi segreti. Questi ultimi non possono essere definiti associazioni segrete, che in Italia sono vietate dalla Costituzione, solo perché gli addetti di Facebook possono vedere sia il nome dei loro membri sia cosa scrivono.

Cosa che non vieta né a un gruppo segreto né a un gruppo chiuso di diffamare chi vogliono diffamare a totale insaputa del malcapitato di turno, né di sostenere tesi socialmente pericolose. Manca cioè totalmente il controllo pubblico.

E’ francamente molto strano che il mondo giornalistico italiano non abbia mai sollevato obiezioni, e non timide, sullo strapotere di Facebook. E in generale dei cosiddetti social. A partire dai suo organismi di rappresentanza, con in testa l’Ordine Nazionale dei Giornalisti e gli Ordini regionali. E lo stesso vale per il mondo politico. Oltre a non riconoscere il diritto d’autore sugli articoli di giornale eventualmente copiati e diffusi, i social si comportano di fatto come giornali online. In definitiva i post pubblicati sono assimilabili ad articoli di giornale, e la marea di commenti testimonia che i loro lettori sono un oceano sterminato.

Tuttavia nessun social ha l’obbligo di registrarsi come testata giornalistica e di nominare un direttore responsabile. La completa assenza dell’Ordine e dei sindacati, nazionali e regionali, dei giornalisti da temi come questi, l’assoluta mancanza di loro proposte, ne DIMOSTRANO l’arretratezza. Diventata ormai palese inutilità per quanto riguarda l’Ordine e l’estrema debolezza e pericolosa inadeguatezza del sindacato.

Tutti parlano, Murdoch agisce

Per fortuna mentre da noi si chiacchiera e ci si limita a lamentarsi, l’editore australiano Rupert Murdoch è andato al sodo. È soprannominato lo Squalo per i suoi modi spicci. Ed è padrone di tutti i giornali e le tv australiane importanti e di un impero editoriale – dal Wall Street Journal al New York Post negli Stati Uniti, dal Times al Sun in Inghilterra fino alle molte testate e tv nel Paese dei canguri – sul quale non tramonta davvero mai il sole. Murdoch ha battuto sul tempo anche i governi di tutti i Paesi del mondo. Ha preso per il bavero un gigante come Google fino a costringerlo a un accordo che prevede il versamento al magnate australiano di  “pagamenti significativi” per l’utilizzo dei suoi giornali.

Per ora l’intesa è di soli tre anni, ma comprende anche punti fondamentali come la condivisione delle entrate pubblicitarie e “investimenti significativi nel video giornalismo innovativo”. Vale a dire, anche e soprattutto in YouTube, boccone ghiotto finito in bocca a Google.

 La cosa però più inaccettabile è che Facebook e affini possano decidere d’autorità, ad nutum e senza che lo decida un magistrato, chi può avere vita “social”. Cioè sociale, e chi invece no. Cosa che denota l’inerzia anche e soprattutto del mondo politico,

Oggi, per vari motivi, la pandemia in corso ha evidenziato in modo anche drammatico, una cosa. Che la vita sociale degli individui, specialmente quella dei giovani e dei giovanissimi, si svolge in gran parte sui social. Pertanto esserne espulsi equivale a essere privati della possibilità di avere una vita sociale al passo coi tempi.

La patente di “socialmente pericoloso” non può essere data d’autorità dai social, che oltretutto sono aziende private. Non è una casa automobilistica a poter decidere che non si possa andare in giro sulle auto da lei prodotte.  Né un supermercato o un centro commerciale possono decidere chi può entrare a fare acquisti o anche solo a curiosare.

Chissà che finalmente ci si svegli… O ci vorrà un Murdoch per sciogliere, a suo modo, anche questo nodo gordiano?