Lombardia, ecco quattro vicende che non piacciono alla magistratura

di Pino Nicotri
Pubblicato il 14 Luglio 2020 - 13:39 OLTRE 6 MESI FA
Lombardia, ecco quattro vicende che non piacciono alla magistratura. Nella foto: Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia

Lombardia, ecco quattro vicende che non piacciono alla magistratura. Nella foto: Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia

Lombardia. Sono quattro le quattro vicende poco chiare nelle quali è coinvolta la Regione.

Lombardia e magistratura. La prima vicenda ha visto il 9 luglio il suo presidente Attilio Fontana interrogato sette ore di fila dai magistrati.

E vede indagati il direttore generale Filippo Bongiovanni della società Aria, che si occupa degli acquisti della Regione. E Andrea Dini, amministratore delegato della società Dama S.p.a. e cognato dello stesso Fontana. In quanto fratello di Roberta Dini moglie del governatore lombardo. Nonché titolare del 10% di azioni della Dama, proprietaria del noto marchio Paul&Shark.

La vicenda consiste nella alquanto strana storia della fornitura da parte di Dama alla Regione Lombardia di 75 mila camici sanitari, per un totale di 513 mila euro prima pagati.

E poi dopo 40 giorni restituiti (ma a quanto pare non tutti): restituiti però quando della vicenda si stava già interessando il programma televisivo Le Iene. I camici non sono stati prodotti da Dama, che si è invece limitata a comprarli per passarli alla Regione a un prezzo maggiorato. 

La versione ufficiale che risponde alle Iene

La versione ufficiale fornita dopo le rivelazioni de Le Iene parla di un equivoco. Non si sarebbe trattato affatto di una vendita. Bensì solo di una donazione che la Regione ha pagato per sbaglio.

Versione temeraria, stando a quanto appurato di recente dai magistrati, che hanno messo le mani su documenti, per giunta particolareggiati,  tipici dei contratti di vendita. Dato che Dama ha come azionista e come amministratore delegato i familiari di Fontana, il conflitto d’interessi è lampante  lapalissiano. Strano non se ne siano accorti immediatamente. 

Versione tanto temeraria quella della donazione che i magistrati stanno valutando se contestare anche il reato di truffa anziché solo quello della turbativa d’asta. Inoltre hanno il sospetto che in Regione sapessero molto bene dell’evidente conflitto d’interessi in quel contratto di fornitura.

La seconda vicenda ha tutta l’aria di una truffa ai danni della Regione e vede finora 11 indagati. Otto case farmaceutiche hanno venduto a 9 ospedali del Gruppo San Donato farmaci con lo sconto del 10%. Il Gruppo si sarebbe fatto rimborsare dalla Regione il prezzo pieno omettendo gli sconti.

Volontà di lucro

La volontà di lucrarci il più possibile pare emergere dalle intercettazioni telefoniche. In una si sentono un dipendente e un consulente del Gruppo S. Donato parlare di acquisti di farmaci ordinati per “riempire i frigoriferi fino a farli scoppiare”, ma  senza reali necessità di fare scorte. In un’altra si sentono due dipendenti della società farmaceutica Mylan che il 21 marzo 2018 se la ridono:

“Giustamente tu mi dirai: ma scusa, ma perché questo (il consulente del gruppo San Donato, ndr ) un farmaco che sul mercato va, non so, a 10 euro, questo lo compra a 300 euro? Che è, scimunito questo? Invece quello è un furbacchione… cioè hanno messo in piedi veramente un’industria…”.

Mascherine cinesi

La terza vicenda vede un mandato di cattura emesso il 27 aprile dalla Procura della Repubblica di Como, con gli arresti domiciliari concessi già il 28, per il negoziante 44enne Fabrizio Bongiovanni. La causa: una sua partita di mascherine per la Regione, mai arrivate. E milioni di euro della Regione al Bongiovanni invece arrivati.

Bongiovanni, detto Bon dagli amici, è titolare di un negozietto di abbigliamento, roba quasi tutta cinese, nelle campagne di Turbigo, un comune della città metropolitana di Milano lungo il Naviglio Grande.

E la sua società risultava avere un capitale di appena 1.000 euro. Era già finita in un’inchiesta su un robusto giro di capi griffati e capi contraffatti made in China. Dato che commerciava già con la Cina,  il padrone di Eclettica a dicembre è stato contattato per telefono da un intermediario bresciano – nome per ora secretato dalla Procura. Costui gli ha proposto di “entrare in una commessa molto interessante”: la fornitura milionaria di mascherine per la Regione. Proposta accettata al volo.

Test sierologici senza bando

La quarta vicenda, piuttosto intricata, protagonista ancora una volta la società Aria addetta agli acquisti della Regione, riguarda la messa a punto di un test sierologico per appurare rapidamente l’eventuale presenza del nuovo coronavirus.

DiaSorin S.p.A.  ha 2.000 dipendenti, opera nei segmenti dell’immunodiagnostica e della diagnostica molecolare. È a capo di un gruppo composto da 26 società e 4 succursali estere. Produce i propri test in 5 siti dislocati in Europa e Stati Uniti.

Quotata dal luglio 2007 presso la Borsa italiana, ha chiuso il bilancio dell’anno scorso con un fatturato di 706 milioni di euro e un utile netto di 175.

In Italia DiaSorin ha due sedi. Quella del ramo  System Development & Integration (SD&I si trova a Saluggia, in provincia di Vercelli. La sede del suo Centro di Ricerca DiaSorin (CRD), il più importante sito della Società dedicato all’innovazione, si trova invece a Gerenzano, provincia di Varese. La città della quale Attilio Fontana  è stato sindaco per dieci anni di fila dal 2006 al 2012.

DiaSorin il 23 marzo firma una accordo con il policlinico S. Matteo di Pavia per una ricerca che perfezioni e metta a punto i test sierologici Elisa e Clia, che il 17 aprile ottengono la Marcatura CE. Vale a dire, l’attestato che si tratta di prodotti dotati dei requisiti previsti per poter essere venduti all’interno dell’Unione Europea.

Scontro tra colossi fra Tar e Consiglio di Stato

La Marcatura CE arriva il 17 aprile, ma stranamente sei giorni prima, l’11, la società Aria della Regione ampliando un contratto firmato il 28 marzo, cioè appena cinque giorni dopo l’accordo DiaSorin/S. Matteo, ha già stipulato un contratto per la fornitura dei test Elisa e Clia per un valore di 2 milioni di euro.

La Marcatura CE arriva il 17 aprile, ma ancor più stranamente già dieci giorni prima, cioè il 7 aprile, Fontana dopo avere dato la buona notizia del rallentamento della pandemia in Lombardia, annuncia trionfante

“lla messa a punto di un test sierologico. La Lombardia fin dal primo momento ha fatto una scelta di prudenza e di rispetto della scienza senza fughe in avanti per la ricerca di test affidabili. Uno di questi test è stato individuato al policlinico San Matteo di Pavia”.

Da notare che, tragica e feroce ironia della sorte, Fontana si presta a fare il testimonial di fatto del test della DiaSorin lo stesso giorno e nelle stesse ore, la mattina del 7 aprile, in cui il suo assessore al Welfare, cioè alla Salute e NON alla Fuffa, dopo un mese di dinieghi finalmente ammette  durante un’intervista al programma Agorà, su Raitre, che la zona rossa in Val Seriana avrebbe potuto deciderla la Regione Lombardia senza aspettare che a Roma si muovesse il governo. E che nel frattempo crepasse altra gente.

E’ così che il 23 aprile, grazie anche al lancio del test sierologico sviluppato con il Policlinico San Matteo, DiaSorin in Borsa segna un +8,13 per cento. Ormai, con soli 2.000 dipendenti totali, vale 9 miliardi e 230 milioni di euro, il triplo della  Pirelli e solo 2 miliardi meno di Fca.  

La marcia trionfale della DiaSorin non piace però alla società concorrente Techno Genetics, con sede a Lodi. Techno Genetics presenta un esposto alla Procura della Repubblica, alla Consob, all’Autorità garante della concorrenza e infine anche al TAR.

Che l’8 giugno le dà ragione. Annulla infatti il contratto DiaSorin/S. Matteo perché questo avrebbe dovuto fare un bando di gara pubblico permettendo così  anche ad altre società di mettere a punto i test sierologici.

Nella sentenza il TAR specifica anche che l’accordo senza bando ha permesso alla DiaSorin, che oltretutto è quotata in Borsa, un “indebito vantaggio competitivo … con conseguente alterazione della concorrenza nel mercato”. 

Il TAR  rileva a chiare lettere che l’accordo in questione “non è diretto alla semplice validazione di un prodotto finito, ma si articola nello sviluppo di un prototipo fornito dalla società, sulla base di una valutazione analitica e clinica, cui potrà seguire un ulteriore studio clinico per determinare le prestazioni diagnostiche conseguibili mediante un kit molecolare da sviluppare e, quindi, non ancora ultimato”.

Insomma, i ricercatori del S. Matteo sono stati utilizzati non solo per validare qualcosa di già esistente, ma per “conseguire un’invenzione sulla base di un prototipo fornito dalla società”. 

Infine, ciliegina sulla torta, Il TAR ha trasmesso gli atti alla Procura della Corte dei Conti perché

“la Fondazione San Matteo ha impegnato risorse pubbliche, materiali ed immateriali, con modalità illegittime, sottraendole, in parte, alla loro destinazione indisponibile”.

Come si vede, la vicenda è piuttosto intricata. Ma, come se non bastasse, a renderla ancor più intricata è arrivato, il 24 giugno, il ricorso di DiaSorin e S. Matteo al Consiglio di Stato contro la sentenza del TAR che ha deciso l’annullamento del loro contratto.