Palestina in Unesco: perché la risposta violenta di Usa e Israele

di Pino Nicotri
Pubblicato il 3 Novembre 2011 - 08:18 OLTRE 6 MESI FA

La rappresaglia è arrivata più puntuale di un treno svizzero. “Non resteremo con le braccia conserte verso queste mosse che danneggiano Israele”, aveva avvertito minacciosamente lunedì il premier Netanyahu, molto contrariato per l’ammissione all’Unesco della Palestina, rappresentata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Teniamo presente che l’Unesco è l’agenzia creata dall’Onu nel 1946 per occuparsi di educazione, scienza e cultura. Tra i suoi compiti e poteri, anche quello di dichiarare “patrimonio dell’umanità” monumenti, siti archeologici, parchi e anche intere città e metterle così sotto la sua protezione.

Meno di 48 ore dopo la minaccia di Netanyahu il gabinetto ristretto israeliano (i sette ministri più importanti) ha preso una serie di decisioni che è francamente difficile definire eque:

– accelerare la costruzione di 2.000 case per coloni a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Di queste nuove abitazioni per israeliani, 1650 saranno costruite nella zona palestinese di Gerusalemme e le altre a sud di Betlemme;

– congelare il trasferimento di fondi palestinesi (dazi doganali e tasse) che Israele è tenuto a raccogliere per conto dell’ANP in base agli accordi di Oslo del ’93;

– minacciare per bocca del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman addirittura la morte definitiva del cosiddetto “processo di pace”, peraltro da sempre frenato proprio dagli israeliani per poter avere tutto il tempo di occupare tramite altri insediamenti di coloni quanta più terra palestinese possibile ;

– minacciare il divieto di ingresso in Israele di delegazioni dell’Unesco nonostante sia un organismo dell’Onu.

La rappresaglia israeliana è stata preceduta da quella, fulminea, degli Usa. Mentre lunedì alcuni dirigenti israeliani definivano l’ingresso palestinese nell’Unesco addirittura “una tragedia”, la Casa Bianca ha annunciato nel giro di pochi minuti che per ritorsione non sarà più versata la quota Usa di contributi, pari al 22%, più di un quinto, degli stanziamenti con i quali l’agenzia dell’Onu vive e lavora.

Mentre i coloni esultano, nonostante siano la vera causa del perpetuarsi della tragedia israelo-palestinese, il presidente dell’ANP, Abu Mazen, ha fatto dichiarare al suo portavoce Nabil Abu Rudeina che quella israeliana è una “decisione disumana” che “accelera la distruzione del processo di pace”. Congelare i fondi significa “rubare il denaro del popolo palestinese”, ha detto Rudeina per conto di Abu Mazen.

Abu Mazen però, almeno per ora, non pare intenzionato a fare marcia indietro, anzi. Ha infatti in programma di chiedere l’ammissione della Palestina in una dozzina di agenzie dell’Onu e di organizzazioni internazionali. Il prossimo obiettivo è l’ammissione all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Il ministro della salute Fathi Abu Moghli ha infatti già preso contatto con i funzionari dell’OMS in Cisgiordania. Subito dopo sarà chiesto l’ingresso nell’Agenzia Atomica Internazionale (AIEA).

Appare evidente che la reazione degli Usa e di Israele non fa onore a nessuno dei due, ma ha il pregio di chiarire in modo lampante anche per un cieco di cosa sia fatta realmente la politica dei due Stati nei confronti dei palestinesi. Pare proprio vogliano dare ragione a chi afferma che gli Usa e Israele per “processo di pace” intendono l’ubbidienza prona dell’ANP agli interessi di Israele.

Del resto Usa e Israele hanno reagito malissimo quando di recente Abu Mazen ha chiesto all’Onu il riconoscimento della Palestina come Stato a pieno titolo. Eppure la creazione dello Stato palestinese è stata decisa dall’Onu già nel 1947, con la storica Risoluzione 181 che riconosceva anche la nascita dello Stato israeliano.

Negli anni ’90 gli Stati Uniti hanno approvato due leggi che vietavano il finanziamento di qualsiasi organismo dell’Onu che accettasse la Palestina come membro a pieno titolo. Strano modo di fare da parte degli stessi Usa ufficialmente impegnati a favorire i colloqui di pace tra israeliani e palestinesi a Camp David e non solo.

Ma cos’è che spaventa così tanto Israele da definire “una tragedia” la new entry dell’Unesco? Il timore è che l’Unesco possa dichiarare patrimonio dell’umanità e sotto la sua protezione una serie di siti archeologici, monumenti e località palestinesi rendendo così impossibile continuare a distruggerli per cancellare l’identità palestinese o a sottrarli ai palestinesi per darli ai coloni.

È stato il giornale israeliano Ha’aretz a rivelare che Israele, per tagliare le radici identitarie dei palestinesi, ha distrutto nel corso degli anni un centinaio di moschee, compresa la moschea Mashaad Nabi Hussein nella cittadina di Majdal, ribattezzata Askelon dagli israeliani, dopo averne cacciato via tutti i 12 mila abitanti. Secondo la tradizione, in quella moschea era sepolta la testa dell’imam Hussein, nipote di Maometto, ucciso con la propria famiglia e 72 seguaci da un usurpatore nell’anno 61 dell’Egira (era musulmana) nel deserto di Kerbala e da allora venerato come un grande martire.

Stando ai documenti custoditi negli archivi di Stato, citati da Ha’aretz, fu Moshe Dayan, il leggendario generale dell’esercito di Israele, a dare l’ordine di fare saltare quella moschea insieme con almeno altre due, una a Yavneh e l’altra nella vicina Ashdod, sul Mediterraneo.

Secondo Ha’aretz, che cita uno studio dell’Università di Tel Aviv, delle 160 moschee, che si trovavano nei villaggi palestinesi annessi da Israele in base all’armistizio dopo la guerra del ‘48, ne sono rimaste in piedi meno di quaranta. Inoltre molte colonie israeliane sono state create occupando siti palestinesi nei quali gli israeliani sostenevano ci fossero tracce dei racconti biblici. La Tomba dei Re a Gerusalemme ha fatto eccezione solo perché è proprietà della Francia.

Ma la “tragedia” lamentata dagli israeliani riguarda principalmente proprio Gerusalemme. La primissima iniziativa dell’ANP sarà chiedere che l’Unesco dichiari l’intera città vecchia di Gerusalemme e Betlemme patrimonio dell’umanità. Una tale dichiarazione, assai gradita anche al Vaticano e di fatto impossibile da negare, metterebbe la parola fine alle continue occupazioni ed espropri di case e siti vari da parte di Israele e dei suoi coloni, che puntano chiaramente all’israelizzazione forzata dell’intera “città santa” e a fare di Betlemme un qualunque quartiere di Gerusalemme, per giunta già circondato da insediamenti di coloni. Poiché non solo la città vecchia di Gerusalemme, ma quasi tutta Palestina sono ricche di siti archeologici di grande interesse storico, culturale e religioso, è chiaro che l’Unesco sarebbe chiamata a impedire ulteriori israelizzazioni di territori palestinesi.

Come si vede, le motivazioni e gli interessi degli Usa e di Israele contro l’ingresso della Palestina nell’Unesco non hanno nulla di nobile. A guidarli pare sia non tanto la ricerca della pace tra israeliani e palestinesi quanto il desiderio di poter continuare a ridurre la presenza e l’identità palestinese ritardando inoltre il più possibile la nascita del nuovo Stato. Che comunque per Israele non sarebbe nulla di più di “un pezzo di carta”, come ha dichiarato Mark Regev, portavoce di Benyamin Netanyahu, in vista della richiesta di Abu Mazen all’Onu di riconoscimento della Palestina come Stato.