Renzi, la terza volta: voleva essere l’asso di bastoni, è diventato il tre di coppe; analisi di un fallimento

di Pino Nicotri
Pubblicato il 24 Gennaio 2021 - 13:25 OLTRE 6 MESI FA
Renzi, la terza volta: voleva essere l'asso di bastoni, è diventato il tre di coppe; analisi di un fallimento

Renzi, la terza volta: voleva essere l’asso di bastoni, è diventato il tre di coppe; analisi di un fallimento

Renzi, ci risiamo! E’ la terza volta che Matteo Renzi tenta il colpo gobbo: diventare l’asso di bastoni. E anche questa volta dopo il solito prolungato dilemma governativo “esce o non esce” non gli è andata benissimo. E siccome gli è andata di nuovo male si profila una specie di riedizione, si parva licet, del “compromesso storico”. Firmato negli anni ’70 dalla Democrazia Cristiana (DC) e dal Partito Comunista Italiano (PCI).  Quest’ultimo si impegnava ad appoggiare il governo accettando di restarne comunque fuori, senza ministri e sottosegretari.
 

Renzi il suo partitino Italia Viva, fatto uscire dal governo dalla porta principale, potrebbe farlo rientrare dalla finestra pur senza pretendere ministeri e sottosegretari.

 
Per cercare di rimontare la china e arrivare alla finestra, Renzi ha dichiarato di voler fare di Italia Vita “il partito dei riformisti”. Cosa e come dovrebbero riformare i riformisti che vuole arruolare non è affatto chiaro. Anche perché nel BelPaese i termini “riforme” e “riformisti” sono quanto mai abusati e da non poco tempo. “Cambiare tutto per non cambiare niente”, diceva il Gattopardo. 
 
Per giunta Renzi ha al suo attivo la batosta della sconfitta nelle urne il 4 dicembre 2016 del referendum costituzionale. Da lui voluto quando era capo del governo. Sconfitta per la quale dovette dimettersi. Pur restando in politica nonostante avesse dichiarato che se perdeva al referendum ne sarebbe uscito del tutto. Insomma, un po’ come la promessa di Walter Veltroni di ritirarsi in Africa a fare volontariato…
 
Nessuno dei due è stato in marina, né militare né civile, ma evidentemente le promesse da marinaio non dispiacciono né a Veltroni né a Renzi. 

Il flop del referendum costituzionale di Renzi

Il referendum in questione era quello che avrebbe dovuto approvare la riforma costituzionale Matteo Renzi-Maria Elena Boschi. Riforma con la quale veniva chiesto di modificare parte della Costituzione come proposto nel testo di legge costituzionale approvato dal parlamento il 12 aprile 2016. Ma andiamo per ordine. Partendo dalla fine, cioè dalla terza volta che gli è andata male anziché dalla prima. 
 
Che senso ha il comportamento di Renzi negli ultimi giorni, uscire cioè da un governo provocandone così la crisi. E poi nel voto di fiducia al premier, anziché votargli contro scegliere l’astensione, più morbida e possibilista? La risposta probabilmente più vicina al vero è che Matteo Renzi – tanto per cambiare – voglia giocare al rialzo.
 
Anche se Giuseppe Conte ce l’ha fatta a ottenere la fiducia in entrambi i rami del Parlamento il suo governo al Senato potrebbe essere sistematicamente bloccato dai 16 senatori di Italia Viva. Che è il partitino partorito da Renzi il 18 settembre 2019.

Al Senato Conte passa con l’astensione di Renzi

Al Senato infatti Conte ha ricevuto 156 sì e 140 no. Se in futuro i 16 senatori renziani dovessero votare compatti no insieme con quest’ultimi 140 colleghi si creerebbe una situazione insostenibile. Se non ci saranno altre defezioni pro Conte, ogni votazione potrebbe infatti registrare  156 sì e 140+16=156 no. Una parità che provocherebbe la morte del nuovo, il terzo, governo Conte. Una pacchia per Renzi, che diventando l’ago decisivo della bilancia avrebbe in mano il rubinetto dell’ossigeno, senza il quale anche i governi muoiono soffocati.
 
Difficile che i 16 in questione restino tutti compatti e monolitici, fedeli alle direttive del loro leader. L’aria che tira infatti è quella di una discreta campagna acquisti da parte di tutti a spese di tutti. Ma in ogni caso nessun parlamentare vorrà correre i rischio che a furia di no si vada a elezioni anticipate. Col risultato magari di non essere rieletto e restarsene a casa. Dato anche che dalla prossima legislatura diminuiranno sia i deputati che i senatori. I seggi alla Camera passeranno da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200.
 
Come che sia, non è necessario per Renzi pretendere posti nel governo per sé o per i suoi. Si può contrattare una posizione di potere dando in cambio l’astensione nei voti in parlamento. Oppure salvare la faccia appoggiando il Governo restandone però formalmente  fuori.  In definitiva è quanto ha già fatto il Partito Comunista Italiano (PCI) con il famoso “compromesso storico” degli  anni ’70.  Ci sono pur sempre bei posti di discreto potere lautamente remunerati nelle varie industrie di Stato, a partire dalla Rai. E altri bei posti per rappresentare l’Italia negli organismi internazionali a partire dall’ONU. 

Lo scontro fra Renzi e Zingaretti

Durante il secondo governo Conte, Renzi stufo di sottostare alle logiche e alle mediazioni del partito di Nicola Zingaretti, un po’ troppo frammentato, è uscito dal PD, ma non dal governo, portandosi appresso una trentina di parlamentari. E fondando Italia Viva.
 
La nuova creatura entra nel governo con due ministri, Teresa Bellanova ed Elena Boneti,  e un sottosegretario, Ivan Scalfarotto. E ci entra come supporto distinto e autonomo dagli altri. Supporto dove Renzi può comandare senza troppi intralci.
 
C’era davvero bisogno di quella nuova scissione e della creazione di un altro partito o partitino? Ma tant’è. Da qualche tempo, per l’esattezza da quando è “sceso in campo” Silvio Berlusconi con la sua creatura Forza Italia, la vita politica italiana è fatta più di personalismi, parole e belle intenzioni, cioè slogan. Che di programmi e realizzazioni per rimettere in carreggiata il BelPaese.
 
E rilanciarne lo sviluppo tramite le non poche modernizzazioni e riforme di cui c’è bisogno sempre più incalzante. Per essere in grado di competere o almeno stare al passo coi tumultuosi cambiamenti del mondo.

Una volta c’erano le correnti

Una volta nei partiti ci si accontentava di creare una corrente, ognuna con una sua anima e proprio leader. La Democrazia Cristiana (DC) ne aveva varie. Famosa la corrente dei dorotei. Ma anche quelle dei fanfaniani e degli andreottiani. Il Partito Socialista Italiano (PSI) aveva le sue, dai carristi ai pontieri fino ai lombardiani, demartiniani e craxiani.
 
E anche se il suo statuto le vietava ne aveva anche il Partito Comunista Italiano (PCI). Famosi gli ingraiani e i loro antagonisti amendoliani. Idem gli altri partiti, mai monolitici. Da qualche tempo invece, conseguenza della morte dei partiti della cosiddetta “prima repubblica”, nella cosiddetta “seconda repubblica, si media meno. E si tende andare più per le spicce.
 
L’eventuale immagine di un Renzi salvatore della patria, tramite la creazione dell’ennesimo partito più o meno di sinistra o presunta tale, era già fuori luogo nel 2019.
 
Il responsabile del pantano, e annessa confusione e pericoli, era infatti già lui: Matteo Renzi. E’ infatti lui che, vantandosene prima, durante e dopo i risultati delle elezioni politiche del marzo di quell’anno ha rifiutato di formare una coalizione di governo con M5S.

Primo Governo Conte fra Lega e M5s

Aprendo così le porte al primo governo Conte. Formato soprattutto da M5S e Lega. Renzi ha cioè rifiutato di fare proprio quella coalizione che il PD di Zingaretti s’è invece dovuto adattare a fare. Con il secondo governo Conte, basato soprattutto su M5S e PD. Per tentare di arginare l’onda populista, sovranista, leghista, rappresentata da un Matteo Salvini sempre più fuori controllo. 
 
Forse che l’M5S era un movimento fascista o qualunquista o comunque di una destra tale da essere impresentabile? E da rendere quindi improponibile un’alleanza di governo PD-M5S? Evidentemente no. L’alleanza infatti alla fine è stata fatta. Non da Renzi, ma da Zingaretti
 
Con le sue intenzioni di riforma della Costituzione Matteo Renzi aveva fatto innamorare Eugenio Scalfari. Ma l’amore è durato poco. E a un certo punto Scalfari lo ha detto chiaro e tondo. Con quella riforma in realtà Renzi voleva “snellire” non solo il parlamento in modo da poter essere lui il detentore di fatto del potere politico nel BelPaese.

Le furbizie col Recovery fund

Con il Recovery Fund abbiamo fatto i furbi. Abbiamo indicato a Bruxelles solo i campi di intervento. Ma nessun piano specifico, nessun progetto. Motivo per cui siamo stati “rimandati a ottobre”. A quanto pare la bozza coi piani dettagliati è stata presentata solo da qualche ora.
 
Renzi quindi un po’ di ragione su questo argomento l’aveva. Ma l’ha giocata male, molto male. Una crisi di governo in un momento come questo, magari con sbocco elettorale, forse sarebbe dannosa quanto il Recovery alla vaccinara, se non di più.
 
A parte il fatto che una molto grande fetta di italiani neppure sa cosa siano il Recovery, il MES, ecc.. Perché il governo non si prende la briga di spiegarlo in modo che lo possa capire “anche il lattaio dell’Ohio”, come raccomandava di farsi sempre capire Indro Montanelli.  
 
Il problema del Recovery è il solito problema di tutti i grandi stanziamenti di soldi statali (e anche privati) per investimenti in ogni settore. Una troppo grande percentuale dei quattrini finisce in tasche indebite e i lavori vengono fatti al rallentatore per fare aumentare la spesa. Lavori spesso di qualità non ottima. Perché, come per le varie carriere professionali, gli appalti non vanno ai migliori, ma ai variamente ammanicati.

Gli appalti spiegati dal boss

Lo spiega MOLTO BENE un ex grande boss della ’Ndrangheta nel mio libro Il Boss dagli occhi di ghiaccio, pubblicato nel gennaio dell’anno scorso. 
 
Una volta ottenuti i soldi del Recovery Fund, quale che sia il governo che li ottiene e il premier che lo guida, Conte, Renzi, Salvini, o chicchessia, la gran parte di quei soldi finirà dove non dovrebbe finire.
 
E la qualità di quanto infine realizzato NON sarà di grande livello. Perciò serviranno manutenzioni, riparazioni, interventi vari: con notevole aumento dei costi, lucro indebito e disprezzo per i cittadini italiani. Quelli che quando fa comodo vengono definiti “popolo”, “patrioti” e via cianciando.
 
Renzi nonostante le sue pose e un certa supponenza è in realtà piuttosto provinciale e conformista. Quando era lui il capo del governo e segretario del PD organizzò nell’ottobre 2014 la famosa quinta edizione del convegno. Che lui assieme al deputato del PD Maria Elena Boschi organizzava ogni anno, dal 2010, alla ex stazione ferroviaria Leopolda di Firenze.
 
Kermesse intitolata  ambiziosamente “Il futuro è solo l’inizio”. E per la quale aveva modellato  il palco della presidenza – dove era seduto e smanettava “modernamente” l’iPad estasiando il pubblico – come il garage californiano di Steve Jobs. Il garage dove mosse i primi passi quello che poi è diventato il colosso Apple, con l’annesso enorme contorno che ha cambiato il mondo. 

L’esordio alla Leopolda

Di fronte alle 3.000 persone presenti l’allora premier e segretario del PD esordì così.
 
”Il garage è il luogo in cui si coltivano le idee e si costruiscono i sogni. Il garage è dove è ferma una macchina da troppo tempo, va rimessa in moto”. 
 
Il messaggio era chiaro: servono idee e si deve rimettere in moto la macchina Italia da troppo tempo ferma. Chissà se di quel garage Renzi conosceva almeno l’indirizzo: 2066 Crist Drive di Los Altos, contea di Santa Clara.
 
Però di sicuro ignorava, come evidentemente tutti i partecipanti alla kermesse, una cosa. Che non esisterebbero né la Apple, per i cui prodotti Renzi ha una bella passione, né internet, né i telefonini, né i computer e neppure la famosa Silicon Walley. Se un italiano di Isola Vicentina, tale Federico Faggin, non avesse inventato il microchip. Con le porte al silicio, la memoria RAM e altre cose fondamentali.  Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 Faggin aveva ideato la tecnologia MOS (Metal Oxide Semiconductor) ). Con porta di silicio (silicon gate) autoallineate. Il tassello fondamentale per la nascita del primo microchip: l’Intel 4004.
 
Renzi il suo palco alla Leopolda avrebbe fatto meglio a modellarlo almeno in parte come il laboratorio casalingo di Faggin. Del quale probabilmente ignora anche l’esistenza e il suo avere dovuto emigrare a Palo Alto negli USA. Emigrare come troppi giovani e troppi cervelli perché il BelPaese abbonda in chiacchiere e retorica. Ma offre poco a chi, giovani compresi, pur essendo capace e geniale non ha coltivato maniglie. E non fa parte di cordate, camarille, cerchi più o meno magici di un qualche potente e di famiglione varie.

La gloria di Faggin nella Silicon Valley

Evidentemente Renzi ignorava anche che quando Bill Gates una quindicina d’anni fa ha accolto la delegazione ministeriale italiana per l’Innovazione e la Tecnologia ci tenne a dichiarare agli ospiti.
 
“Prima di Faggin, la Silicon Valley era semplicemente una valle”, nota per la frutta e le orchidee. 
 
Dopo Faggin e grazie a lui è diventata il famoso concentrato di aziende dedicate a progettare, produrre e commercializzare microchip e annessi e connessi in tutto il pianeta.
 
Renzi che, come tutti i suoi fedeli, ignora i geni dell’Italia viva per davvero, come quella di Faggin. Poi il suo partitino lo chiama Italia Viva…. Dati i tempi, dopo Forza Italia, Italia Viva, Fratelli d’Italia e il neonato gruppo misto del Senato MAIE-Italia23, il nome molto adatto a un altro “nuovo” partito potrebbe essere “Povera Italia!”.