Siria: Usa interessati non alla democrazia ma al petrolio

di Pino Nicotri
Pubblicato il 27 Agosto 2012 - 04:51 OLTRE 6 MESI FA

Il salto di qualità dell’appoggio dell’Occidente ai ribelli siriani è avvenuto non solo e non tanto con la recente decisione europea, Italia compresa, di un più deciso appoggio militare, quanto con la decisione Usa di fornire loro missili terra aria, in grado cioè di colpire qualunque velivolo.

Si tratta della stessa decisione che a suo tempo presero gli Usa di fornire i micidiali Stinger terra aria per mettere in grado i ribelli afgani di colpire gli aerei e gli elicotteri sovietici, segnando così il punto di svolta che permise la vittoria dei talebani appoggiati da tempo i tutti i modi da Washington.

Per fare un paragone dei nostri tempi: se qualcuno fornisse gli Stinger o i loro equivalenti non made in Usa ai palestinesi, Israele non potrebbe più bombardare Gaza con l’aeronautica.

Ma il salto di qualità voluto dagli Usa segna anche l’inizio di una vera e propria guerra contro l’Iran, anche se combattuta per via indiretta e senza dispiegare grandi armamenti. Per capirlo basta leggere le raccomandazioni intitolate Labirinto Iran fatte al presidente Obama dal Saban Center for Middle East Policy, emanazione della Brookings Institution, che ha sede a Washington.

Nata nel 1916, la Brookings nel 2009 è stata posta in cima alla classifica del Foreign Policy Think Tank Index. I sei autori del report del Saban Center sono tutti nomi di alto livello, che hanno ricoperto incarichi di responsabilità chi al Dipartimento di Stato e chi al Consiglio di Sicurezza Nazionale, chi nella Cia e nell’azione degli Usa in Iraq, Corea, Pakistan e Afganistan. Non manca neppure un ex ambasciatore in Israele e consigliere personale del presidente Clinton, come Martin Yndik, né un membro dello staff di governo del presidente Obama, come Suzanne Maloney.

Il dato interessante è che loro raccomandazioni fanno parte in un modo o nell’altro della dottrina politico militare Usa, quale sia quella scelta dalla Casa Bianca, per il semplice motivo che prendono in esame nove scenari, tutti quelli possibili e immaginabili nei confronti dell’Iran: dall’invasione militare massiccia a una lunga campagna di bombardamenti aerei, dall’accordo di pace globale al “contenimento” rivelatosi vincente contro l’Unione Sovietica, dalla sobillazione dell’opposizione a quella delle minoranze etniche e al colpo di Stato, dal disco verde a un attacco israeliano allo strangolamento economico tramite l’aggravio sempre più pesante delle sanzioni.

L’altro dato interessante è che nessuno degli autori in nessuno dei nove scenari si maschera con la missione di esportare la democrazia in Iran, ma vanno tutti direttamente al sodo senza ipocrisia, parlando solo e unicamente della difesa degli “interessi americani in Medio Oriente”.

I sei esperti mostrano anche di avere imparato dalle esperienza in Iraq e in Afganistan, che definiscono fallimentari, soprattutto la prima perché non sostenuta della quantità di uomini necessari. I sei avvertono che per invadere un Paese e riuscire in qualche modo a “pacificarlo”, cioè a tenerlo sotto controllo, ci vuole almeno un soldato o poliziotto ogni 20 abitanti: quindi una eventuale invasione dell’Iran avrebbe bisogno di almeno 3,5 milioni di uomini in divisa adeguatamente armati.

L’intervento in Siria, già in atto con consiglieri militari non solo inglesi e con massicce forniture di armi ai ribelli, ricalca non a caso lo scenario esaminato dal Saban Center per l’Iran di sobillazione, rivolta e armamento delle minoranze etniche ed è esplicitamente previsto dai sei esperti come utile a erodere l’influenza e le alleanze di Teheran in Medio Oriente, un grimaldello per cominciare a far franare il regime iraniano. Ecco perché si può dire che l’attuale “rivoluzione democratica” siriana è la prima tessera militare di una spallata al regime iraniano. Non si tratta quindi di portare la democrazia in Siria, ma solo di badare agli “interessi americani in Medio Oriente”.

In Siria si approfitta del fatto che il clan al governo è composto in maggioranza da alawiti, una minoranza nel Paese così come erano una minoranza in Iran i sunniti del clan di Saddam Hussein al potere. I sunniti in Siria sono la maggioranza, ma eccetto pochi uomini sono tenuti accuratamente fuori dalle istituzioni di governo, che resta saldamente in mano ad alawiti, drusi e cristiani. Le minoranze curda e araba sono in posizione defilata la prima, interessata più che altro alla propria indipendenza e a uno Stato con i curdi turchi e quelli iracheni, e pressoché assente la seconda. I drusi e i cristiani temono che la caduta dell’attuale regime abbia come conseguenza la fine dei propri diritti e anche della propria sicurezza.

Come che sia, le foto dei “patrioti rivoluzionari” siriani mostrano sempre e solo uomini dall’evidente aspetto e comportamento di militari di carriera, mai nessuna donna. Difficile quindi parlare di rivolta spontanea, tanto meno di anelito alla democratica. Non a caso l’Onu parla di stragi ed esecuzioni sommarie anche da parte dei rivoltosi. Tutto ciò ricorda quanto avvenuto in Libia l’anno scorso, quando la cosiddetta “rivoluzione libica” venne innescata da istruttori militari clandestini francesi, inglesi e del Qatar facendo leva sulle solite divisioni tribali. Insomma, un altro intervento occidentale strumentale, questa volta diretto contro l’Iran.

Ciò che rattrista è che si accampano anche stavolta ragioni umanitarie e di democrazia, quando in realtà ci teniamo stretti regimi indecenti come quello dell’Arabia Saudita, uno dei peggiori del mondo, dove vige la Sharia e dove le donne sono trattate come oggetti privi di qualunque diritto, compreso l’andare in bicicletta; giustifichiamo la recente feroce repressione del Bahrain ignorandola completamente; giustifichiamo anche il Qatar, dove la marea di immigrati non ha diritti, e corteggiamo tutti i vari emirati del Golfo gonfi di petrolio e quattrini.

La Cina, la Russia e l’Iran sostengono Assad, ognuno per i propri concreti motivi e non certo per questioni etiche o umanitarie. Gli USA, Gran Bretagna, Francia, Arabia Saudita e Turchia sostengono, finanziano e armano i ribelli di certo non per ragioni umanitarie, ma come prima tappa per imbrigliare l’Iran.

Duole constatare che in oltre mezzo secolo la politica occidentale nei confronti dell’Iran non sia affatto cambiata. Nel 1953 gli Usa e l’Inghilterra organizzarono il colpo di Stato che abbatté il governo del primo ministro Mohamad Mossadeq e la neonata democrazia iraniana, spalancando così le porte alla feroce repressione dei militari dello scià e, di conseguenza, alla rivoluzione che ha portato al governo teocratico attuale.

Allora come oggi – e come per l’invasione dell’Iraq – il movente è stato il petrolio. Gli enormi giacimenti di petrolio e gas del sottosuolo iraniano sono essenziali per l’economia occidentale. E nessuno vuole correre il rischio che vadano ad alimentare il colosso Cina.