Trump, pompiere (forse) in Corea, incendiario (certo) in Iran

di Pino Nicotri
Pubblicato il 29 Maggio 2018 - 06:02 OLTRE 6 MESI FA
Trump, pompiere (forse) in Corea, incendiario (certo) in Iran

Trump, pompiere (forse) in Corea, incendiario (certo) in Iran

Trump, pompiere (forse) in Corea, incendiario (certo) in Iran? Anziché traccheggiare con un tira e molla che può anche finire male, Donald Trump se davvero volesse fumare il calumet della pace con il presidente nord coreano Kim Yong-un non dovrebbe  [App di Blitzquotidiano, gratis, clicca qui,- Ladyblitz clicca qui –Cronaca Oggi, App on Google Play] fare altro che tirar fuori dai cassetti della Casa Bianca l’accordo raggiunto a fine 2.000 sotto la presidenza di Bill Clinton e cestinato da George Bush figlio non appena eletto.

Cestinato, con l’unico risultato di ritardare la Storia per una ventina d’anni e spingere così la Corea del Nord a dotarsi prudentemente di bombe atomiche onde evitare altre invasioni della penisola coreana dopo quella feroce del Giappone ai primi del ‘900 e degli USA l’8 settembre 1945, pochi giorni DOPO la fine della seconda guerra mondiale. Invasione brutalmente colonialista la prima,  con l’unica motivazione dell’anticomunismo la seconda. Anticomunismo sotto forma di Containment dell’Unione Sovietica.

 Il trattato preparato dal Segretario di Stato Madeleine Albright nel 2.000 parlava chiaro: fine delle sanzioni imposte dagli USA e rinuncia nordcoreana al nucleare militare e anche a tutti i missili di media e lunga gittata. Missili che sarebbero stati venduti in blocco proprio agli Usa tanto che per mettere in orbita i suoi satelliti per le telecomunicazioni la Corea del Nord si sarebbe rivolta alla Russia.

Il balletto che ormai si trascina da un paio di mesi è chiaramente pretestuoso, difficilmente giustificabile. Sembra davvero incredibile che il presidente dello Stato militarmente più forte al mondo, nonché il quarto per estensione, faccia il tira e molla per decidere se incontrare o no il presidente del piccolo staterello  Corea del Nord e che per giunta rinvii sine die o minacci di evitare del tutto qualunque incontro accampando come motivazioni la banalità di frasi poco gradite pronunciate dal presidente nord coreano. Che viene parcheggiato senza fretta in sala d’attesa così come è stato fatto dalla Casa Bianca con suo padre Kim Jong-il nel 2001, quando a Washington si sono  rimangiati  tutto e hanno deciso di lasciarlo definitivamente fuori dalla porta. Ora è il turno di suo figlio.

Per essere statisti e uomini di governo è francamente strano che diano la precedenza non ai problemi dei popoli che rappresentano, bensì alla propria vanità e ai propri malumori. Strano che costoro non sappiano che gli accordi, la pace, i trattati e la risoluzione dei problemi si cercano e si firmano non con gli amici fidati o con gli yesman sempre d’accordo o più o meno genuflessi, bensì con gli antagonisti, con i nemici, con chi comunque la pensa diversamente da come si vorrebbe. Altrimenti l’alternativa è prima o poi la guerra o l’amara constatazione che si è perso tempo prezioso e che anziché sfogliare con sussiego la margherita meglio sarebbe stato rompere gli indugi e superare i reciproci fossati, evitando catastrofi, lutti e mari di sangue. La Storia questo insegna. Non altro.

Tutto ciò premesso, non si capisce come dare torto al presidente della Corea del Nord, messo in castigo perché ha (giustamente) protestato:

– prima contro le poderose esercitazioni aereo navali davanti al suo Paese, che gli USA intendevano comunque condurre assieme alla Corea del Sud senza neppure la prudenza o almeno il pudore di rinviarle a dopo l’escatologico incontro finalmente messo in agenda;

– poi contro la minaccia del neo consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton di far fare alla Corea del Nord la fine della Libia. Fine resa possibile perché Gheddafi nel 2003 ha rinunciato al programma nucleare su pressione USA, rinuncia pagata anche con la vita dello stesso Gheddafi. Per non parlare della fine fatta fare all’Iraq e a Saddam.

 Eppure, nonostante tutto, Kim il suo impegno – unilaterale! – di smantellare il poligono nucleare lo ha mantenuto egualmente, con verifiche pubbliche. Perché quindi volerlo umiliare pretendendo che obbedisca senza fiatare ai diktat USA? Quando per giunta è lo stesso presidente  Moon Jae-in della Corea del Sud che supplica Trump di arrivare all’incontro con Kim e di risolvere in modo credibile e duraturo tutti i problemi sul tappeto. La memoria va inevitabilmente al presidente sud coreano che nel marzo 2001, fresco Premio Nobel per la Pace,  corse alla Casa Bianca per supplicare inutilmente il nuovo inquilino di firmare il trattato preparato da Clinton/Albright con Kim Jong-il, padre dell’attuale presidente nord coreano.

Nonostante le piroette, pare che per fortuna Trump – pur tra molte altre pretese – incontrerà Kim anche se non più il 12 giugno, ma più tardi. Speriamo che l’incontro si concluda con un accordo, sia pure con un deprecabile ritardo di 18 anni che certo non ha favorito conquiste democratiche e benessere in Nord Corea. In ogni caso, la conquista della bomba atomica si è rivelata utile per spingere gli USA, pur tra contorcimenti per salvare la faccia, a sedersi al tavolo e trattare. Con grande scorno di tutti i prevenuti, e anche un po’ razzisti, che si stracciavano le vesti gridando la loro certezza che Kim “il pazzo” le sua atomiche le avrebbe lanciate di corsa sugli Usa (e sul Giappone).

Aveva quindi ragione il professor Rainer Dormels, specialista di Corea del Nord all’Università di Vienna, quando al Venerdì di Repubblica ha dichiarato:

“L’investimento sul nucleare  [della Corea del Nord] fa sì che ingenti somme di denaro vengano risparmiate sulla difesa tradizionale. Ci si concentra sui pochi centri scientifico-militari e si spende meno in carri armati o fucili. I soldi ricavati dai tagli finiscono in infrastrutture”.

Trump da un lato pare che acconsenta ad allentare – e poi magari eliminare – la tensione che cova pericolosamente in corea da ben 73 anni, ma dall’altro l’ha rilanciata alla grande con l’Iran ritirandosi dall’accordo multilaterale sul nucleare militare iraniano. Le accuse a Teheran di “avere mentito” pare proprio si basino su documenti superati, precedenti la firma dell’accordo. E hanno tutta l’aria di un disco verde a Netanyahu per bombardare “i siti nucleari sospetti” addebitati a Teheran su basi la cui fondatezza è ignota, non controllabile né da altri Stati né dall’Onu. Ma questo argomento merita di essere approfondito a parte.

Intanto si può dire che se da una parte Trump pare stia per spegnere un incendio, dall’altra – senza il pare – ne sta appiccando un altro. Pompiere (forse) da una parte e incendiario (senza il forse) dall’altra? Dottor Jekyll e mister Hyde? Vedremo. Tutto ciò ha l’aria di una conferma della dipendenza politica Usa dal suo gigantesco, e trainante l’economia, “complesso militar industriale”, la cui pericolosità è stata denunciata da Eisenhower fin dal 19 gennaio 1961, quando traslocò dalla Casa Bianca dopo otto anni da padrone di casa.