Occupazione in aumento: la quantità è indice di qualità?

di Giulio Mitolo
Pubblicato il 1 Marzo 2016 - 06:18 OLTRE 6 MESI FA
Occupazione in aumento: la quantità è indice di qualità?

Occupazione in aumento. Giulio Mitolo si chiede: la quantità è indice di qualità?

Occupazione in crescita: la quantità è indice di qualità?

La sfida dei numeri dell’ occupazione non deve mai dimenticare la sfida dei valori del lavoro.

Ad anno ben che cominciato, fioccano le analisi socio-economiche sul lavoro e su ciò che è portato il 2015, con un panorama giuslavoristico nazionale profondamente modificato dalle riforme del Jobs Act e delle sue ricadute in termini occupazionali e contrattuali.

Il dato delle assunzioni a tempo indeterminato (al netto di cessazioni) ci restituisce l’aumento di 71.236 posti di lavoro in più in dicembre 2015 rispetto agli 8.118 dei mesi precedenti, con un dato finale di 186.376 nuovi rapporti a tutele crescenti; la distribuzione regionale pone il Lazio, la Campania e la Lombardia ai primi posti.

Altri aspetti rilevanti si trovano nella forma dei contratti “part-time” ad un livello piuttosto alto, il 58% e nella specificità delle trasformazioni da contratti a termine a “indeterminato” che raggiungono le 104.275 unità nel solo mese di dicembre; questo ci mostra quanto incisiva è stata la quota degli 8.000 euro di incentivo, valida fino al 31/12/2015 e che ora passa nel 2016 a 3.000 euro circa.

A destare attenzione vi è poi il dato dell’aumento delle assunzioni beneficiarie degli sgravi, che vede il Meridione emergere sia in termini assoluti che percentuali con il 35% del totale nazionale, che indica quanto gli sgravi abbiano avuto l’effetto di emersione del lavoro fino ad allora irregolare: un dato questo certamente positivo; meno positiva è la considerazione che di fatto lo Stato abbia impiegato enormi risorse per facilitare quelle imprese non rispettosissime delle leggi sul lavoro, invece di premiare quelle aziende ligie alle norme.

Ulteriore segnale del boom lo offre il mercato dei voucher, che con i suoi 114.921.574 di buoni lavoro complessivi venduti nel 2015, rappresentano, al netto delle ore non dichiarate, circa 57.000 unità di lavoro equivalente secondo le indicazioni dell’Inps; come dire che un certo tipo di lavoro occasionale riemerge dal nero per ottenere una formalizzazione, anche se ben lontana dalla stabilizzazione.

Il tema è: quanto la crescita occupazionale che appare di quantità diventi anche di qualità?

Molto interessante al riguardo è l’approccio sviluppato dall’Ocse che ha valutato il mercato del lavoro dei Paesi che ne fanno parte, attraverso tre criteri: la qualità delle remunerazioni, ossia la media del salario e la distribuzione tra i lavoratori, la protezione nel mercato del lavoro, intesa come possibilità di perdere il posto di lavoro e conseguente sostegno al reddito e la qualità dell’ambiente di lavoro, che valuta gli elementi non economici in termini di natura, contenuti e relazioni del posto di lavoro.

L’Italia vede la qualità delle remunerazioni nella media, dove nonostante i salari più bassi della media Ocse a parità di poter d’acquisto le differenze nella distribuzione sono sostanzialmente accettabili; il nostro Paese si posiziona lontano dai Paesi nordici, ma anche lontano dai Paesi dell’est.

Dove più svantaggiata è la posizione sulla protezione nel mercato del lavoro, dove l’Italia è terz’ultima subito dopo Grecia e Spagna; una incertezza che deriva dal timore di perdere il lavoro e di non poterne trovare un altro in tempi brevi, nonchè da un sistema di sostegno al reddito parzialissimo.

Aldilà della definizione di principio che riporta il contratto a tempo indeterminato come il “contratto tipo”, vi è ancora un forte gap tra quest’ultimo e gli altri contratti, sia in termini previdenziali che di sicurezza in caso di perdita del lavoro; e questo quadro si rafforza se si pensa che circa due terzi dei nuovi contratti sono assunzioni a tempo, ossia “precari”.

La crisi poi certo non ha migliorato la situazione, considerando che l’Italia dal 2007 è scesa da metà classifica a terz’ultima; da sostenere è quindi il riordino delle sovvenzioni alla occupazione, le politiche per la flessibilità del lavoro e della armonizzazione del rapporto vita-lavoro ed in attesa del pieno funzionamento dell’Anpal.

Se quindi ad una conclusione si giunge con l’analisi Ocse è che se si lavora per rendere più “qualitativa” l’occupazione, anche i tassi di impiego della forza lavoro aumentano: una strada senz’altro da percorrere.