Uscire dalla crisi: una terza via tra “rigoristi” e “sviluppisti”

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 18 Gennaio 2012 - 19:38 OLTRE 6 MESI FA

Mario Monti e Angela Merkel (Lapresse)

ROMA – Alla fin fine sono sostanzialmente due le correnti di pensiero economico che si confrontano quasi quotidianamente sulle cause e soprattutto sui rimedi per far fronte alla crisi attuale. Da un lato ci sono i “rigoristi”, quelli che predicano la prioritaria necessità di ridurre i deficit e i debiti pubblici, aumentando le tasse e soprattutto riducendo la spesa. Dall’altro gli “sviluppisti”, quelli che, pur riconoscendo la necessità di porre sotto controllo i bilanci degli Stati, ritengono che con soli tagli e tasse ci si infili in un circolo vizioso.

La riduzione di deficit e debiti non farebbe che accrescere le tendenze recessive già presenti nelle economie sviluppate, provocando, oltre che nuova disoccupazione e flessioni del Pil, una riduzione delle entrate fiscali e una maggiore richiesta di welfare e quindi, alla fine, un peggioramento dei conti pubblici: di qui la necessità di un susseguirsi praticamente senza limiti di manovre “lacrime e sangue” per riaggiustare in continuazione i bilanci statali. Per evitare questo “circolo vizioso” gli sviluppisti suggeriscono varie ricette che però tutte possono venire ricondotte ai classici rimedi keynesiani: spesa pubblica, possibilmente per investimenti, che riporti, tramite il meccanismo del moltiplicatore, le economie lungo un percorso di sviluppo.

La schematizzazione è in realtà un po’ una caricatura: oggi in realtà anche i più convinti rigoristi ammettono che subito dopo il risanamento dei conti si debbano implementare politiche di sviluppo, così come i più tenaci sviluppisti riconoscono che la loro terapia non può essere prolungata a lungo, pena la morte del paziente per eccesso di deficit. Insomma le scuole economiche si sono fatte più pragmatiche e flessibili. Lo stesso a quanto pare sta avvenendo, ma a passi molto cauti, anche per i governi dei paesi dell’eurozona.

Frau Merkel ammette a denti stretti che, dopo che tutti avranno fatto i “compiti per casa” con i propri conti, si dovranno anche realizzare politiche espansive e le istituzioni dell’Eurogruppo dovranno assecondarle (con maggiori risorse al Fondo salva Stati o con interventi della Bce). I premier dei paesi più deboli, dal canto loro, corrono su e giù fra le loro capitali e Bruxelles e Berlino, per mostrare alla maestra la cartella dei compiti “fatti” e chiederle che metta in calendario l’ora di sviluppo (“la Germania da molto tempo dà agli altri paesi una prova concreta di come la disciplina del bilancio pubblico e un’economia fondata sulla disciplina del mercato siano le migliori ricette”, però “ora bisogna pensare anche a politiche per la crescita”, Mario Monti).

Naturalmente gli economisti, sia perché non hanno responsabilità di governo e sia perché hanno sempre presenti le astratte teorie sulle quali si sono formati, sono più drastici nelle loro richieste e apprezzano poco le mediazioni diplomatiche dei premier che o sono troppo poco rigoriste oppure troppo poco “sviluppiste”. La verità di fondo è che nessuno, né i teorici né i politici, ha ben chiaro quale dovrebbe essere il “mix ideale” tra rigore e sviluppo, come conciliare i due termini e soprattutto quale sia la sequenza temporale corretta per i due tipi di misure, chi debba venire prima e chi dopo.

Per quanto riguarda i keynesiani, per convinzione o per interesse, siano essi economisti o politici, bisogna aggiungere che la ricetta di J. Maynard Keynes è stata elaborata soprattutto negli anni ‘30, quando i debiti degli Stati, se c’erano, erano irrisori rispetto agli attuali. Si poteva allora ipotizzare una politica di “deficit spending”, anche molto prolungata nel tempo, con effetti soltanto benefici sul “tono” delle economie. Del resto, a chi gli obiettava di occuparsi solo della ripresa congiunturale, degli effetti di breve periodo della politica economica, l’economista britannico rispondeva ironico: “Sul lungo periodo saremo morti”.

Oggi la situazione dei debiti pubblici è nettamente cambiata, sono aumentati in modo esponenziale. La crisi odierna è figlia della loro esplosione. Si sono moltiplicati i debiti degli Stati, più che raddoppiati in dieci anni: da poco si è superata la cifra di 40 mila miliardi di dollari, secondo il Fmi, e di 44 mila secondo altre fonti. Per le economie sviluppate – nelle quali si concentra una quota largamente maggioritaria del debito pubblico complessivo – il debito rapporto debito-Pil supera il cento per cento, come alla fine della seconda guerra mondiale, e per il 2016 si prevede che tale rapporto supererà di 34 punti percentuali il livello del 2007, sorpassando quota 107.