Flessibilità: da New York a Roma passando per Marchionne

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 3 Gennaio 2011 - 21:13| Aggiornato il 4 Febbraio 2011 OLTRE 6 MESI FA

Il nuovo Apple store sulla Fifth Avenue a New York

Come Christian De Sica nel 2006 e parecchie migliaia di italiani ogni anno, anch’io ho avuto il mio “Natale a New York”.

Un aspetto della “grande mela” mi è parso particolarmente interessante e forse non irrilevante in relazione al dibattito in corso sul “metodo Marchionne”, sulle condizioni che l’ad del gruppo Fiat e Chrysler ha posto ai sindacati come contropartita del suo piano d’investimenti.

E’ il 25 dicembre, primissimo pomeriggio: il nuovo Apple store della Quinta strada, un cubo di cristallo in superficie, è aperto. Nel grande spazio sotterraneo centinaia di iPod, iPod touch, iMac, MacBook Pro, iPhone e via elencando sono a disposizione dei clienti che li possono maneggiare a volontà.

A loro disposizione vi sono anche decine e decine di “commessi”, perlopiù giovani esperti di tecnologie informatiche che assistono i potenziali compratori. Questi ultimi sono migliaia, un flusso ininterrotto alla stessa ora in cui, nel giorno di Natale, in ogni grande città italiana, le strade sono deserte, i negozi tutti rigorosamente sbarrati e i cittadini del Bel Paese sono impegnati a digerire cappelletti, panettone e spumante.

A Nyc di spalancato non c’è solo l’Apple store ma molti grandi magazzini. E tutti affollati. Sulle vetrine di quelli chiusi si potevano leggere cartelli di questo genere: “Domani alle ore sette del mattino inizieranno le vendite straordinarie”. E il giorno appresso, 26 dicembre, era una domenica: i negozi erano tutti aperti e pieni di gente. Anche quelli che non facevano liquidazioni: per entrare da Abercrombie & Fitch e conquistare una felpa a prezzo pieno bisognava mettersi in fila sulla strada innevata e con un vento gelido per due ore e mezzo (150 minuti, controllati di persona).

Morale della storia? Innanzitutto è evidente che negli Stati Uniti la flessibilità del lavoro, almeno nel settore commerciale, è elevatissima: manodopera e imprese sono pronte a cogliere al balzo ogni occasione di guadagno e sembrano non essere nemmeno sfiorate dall’idea di “santificare le feste”. Andare al lavoro all’alba, restarvi per orari spesso lunghissimi, faticare di Natale e di domenica: tutto ciò negli States sembra normale mentre da noi qualcuno ritiene soprusi inammissibili e quasi eversivi la riduzione (pagata) della pausa mensa e l’aumento (pagato) dei turni notturni.

Si badi bene: nessuno vuole mettere sullo stesso piano il lavoro nel terziario con quello, più duro e logorante, nell’industria. Vale la pena comunque ricordare che mentre a Mirafiori e negli altri stabilimenti Fiat la maggiore flessibilità richiesta viene compensata (intorno ai tremila euro all’anno), alla Chrysler gli operai nuovi assunti hanno accettato una paga dimezzata (da 28 a 14 dollari l’ora) rispetto a quella degli “anziani”.

In Italia nell’erogazione del lavoro si tendono a rispettare tutte le dovute pause digestive, riflessive, familiari. E non vi è chi non veda che la qualità della vita ne risulta indubbiamente migliore. Ma una domanda è inevitabile: fino a quando tutto ciò continuerà a essere possibile, considerato che il paese guida del capitalismo, dove il livello tecnologico è decisamente superiore al nostro e il settore dei servizi, per sviluppo e qualità, non è neppure paragonabile, per aumentare la sua produttività accetta condizioni estreme di flessibilità del lavoro?

Queste modeste riflessioni si debbono considerare una sorta di dichiarazione di voto in favore delle tesi dell’abruzzese-italo-canadese-americano-svizzero Sergio Marchionne? L’uomo dal pullover blu ha ragione al cento per cento nelle sue pretese?

Nei giorni scorsi si è svolta in Confindustria una riunione a porte chiuse dei presidenti delle varie associazioni territoriali e settoriali. Emma Marcegaglia ha illustrato i punti salienti del “piano Marchionne”. Gran parte dei presenti intervenuti ha preso le distanze da alcuni aspetti del progetto Fiat. In sostanza l’argomento ricorrente è stato: d’accordo con Marchionne per quel che riguarda la ricerca di ogni mezzo per incrementare la produttività, in primo luogo attraverso una maggiore flessibilità; disaccordo invece quanto si pretende di cancellare o ammutolire un’organizzazione sindacale se rifiuta un’intesa e risulta essere in minoranza (il riferimento è, ovviamente, alla Fiom), come pure di cancellare il diritto allo sciopero per le minoranze che non aderiscono agli accordi.

Perché molti imprenditori sono giunti a queste conclusioni? Innanzitutto, ragionano, è meglio avere in azienda un sindacato “scomodo”, fortemente conflittuale, piuttosto che un vuoto di rappresentanza: meglio un duro confronto e magari anche un conflitto aperto ma attuato con le procedure sindacali consolidate che un ribellismo anarchico che metterebbe a rischio la governabilità dell’impresa (gli Stati Uniti, dove sono nate molti decenni fa, proprio nel settore automobilistico, le cosiddette lotte a “gatto selvaggio”, fanno scuola anche in questo).

La questione è ancor più sentita in quelle regioni e in quelle unità produttive, magari piccole, dove un sindacato come la Fiom è nettamente maggioritario, a differenza che nella media settoriale: in questi casi la “dottrina Marchionne” rappresenterebbe un suicidio per le imprese. Per questi e altri motivi rappresentati nell’occasione ricordata, la presidente di Confindustria ha deciso di reincontrarsi con l’ad Fiat ed esporgli le molte perplessità dei suoi “colleghi”. Sarà stata ascoltata?