Le pensioni in rosa: perché l’età va aumentata

di Paolo Forcellini
Pubblicato il 18 Luglio 2011 - 09:41| Aggiornato il 19 Luglio 2011 OLTRE 6 MESI FA
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foto Lapresse

L’altra sera una cara amica sessantenne (posso dirne l’età non appalesandone il nome) si scagliava con buone ragioni contro la manovra quadriennale di politica economica del governo, colpevole di vessare i più poveri, i pensionati, le donne. Soprattutto le donne, sosteneva la signora, con quella balzana idea di aumentarne, seppur gradualmente, l’età pensionabile. Per la verità molto gradualmente, ho provato a obiettare, tant’è che Umberto Bossi, contrario all’elevamento e orgoglioso del risultato raggiunto, ha fatto dell’ironia sull’anno in cui si raggiungerà la parità uomo-donna per le pensioni di vecchiaia, parlando dell’“anno del mai”. Quella parità, così come quella tra dipendenti donne del settore pubblico e di quello privato, verrà infatti raggiunta solo nel 2032, tra oltre un ventennio.

Sottigliezze, secondo la mia amica: l’essenza della manovra su questo fronte è che all’altra metà del cielo viene scippato un trattamento preferenziale che aveva e ha una sua indiscutibile fondatezza. Non nascondiamoci dietro a un dito: è la donna che oggi come ieri si fa carico di gran parte del lavoro domestico, della cura dei figli e quasi sempre anche degli anziani e dei diversamente abili di famiglia, assommando al lavoro fuori casa quello di cura, senza alcuna retribuzione ma anzi spesso pagando questo duplice impegno in termini di minor carriera e retribuzione.

Per tutto ciò va risarcita, e cinque anni in meno di vecchiaia per ottenere la pensione sono un sia pur parziale riconoscimento del duplice impegno femminile: così concludeva la mia interlocutrice. A mio avviso un simile tipo di “compensazione” è improprio per almeno quattro buoni motivi. In primo luogo perché rischia di contribuire a cristallizzare gli attuali, invecchiati e sperequati, ruoli sociali e familiari: ti faccio uno “sconto” di cinque anni per la pensione ma tu rinunci:
1) a rivendicare una più equilibrata ripartizione fra maschi e femmine degli impegni familiari;
2) a “pretendere” retribuzioni del medesimo livello (attualmente si stima che mediamente quelle “in rosa” siano intorno al 70 per cento di quelle degli uomini);
3) a esigere un sistema di welfare che sollevi al massimo possibile le donne e la famiglia in genere dalle responsabilità di cura (asili nido, scuole a tempo pieno, assistenza medica e infermieristica domiciliare, assegni di accompagnamento, ecc.).

In secondo luogo non si capisce l’impropria compensazione tra un maggior impegno dovuto a tradizioni maschiliste, culture e subculture, e un onere a carico di un sistema previdenziale che oltretutto ha da qualche anno volto la rotta verso un regime contributivo: a ciascuno in proporzione di quanto ha versato durante la vita lavorativa. Perché far carico alla previdenza di problemi di tutt’altra origine? Infine ci si dovrebbe spiegare perché la riduzione nell’età pensionabile di vecchiaia riguardi tutto il genere femminile, indipendentemente dal fatto che effettivamente nel corso delle singole vite siano stati accuditi figli, anziani o disabili e quanti essi eventualmente siano stati. Tutt’altro senso avrebbe, semmai, uno “sconto” nell’età pensionabile in base alla prole procreata o adottata da ciascuna donna, con vantaggi maggiori, ad esempio, dal terzo figlio in poi: qui entreremmo nel campo della politica demografica, terreno sconosciuto in Italia (ma nient’affatto in Francia o in altri paesi sviluppati), come dimostrano i nostri tassi di natalità da prefisso telefonico.

Il quarto motivo che si dovrebbe sensatamente opporre allo “sconto” sull’età di vecchiaia femminile è dato dal fatto che la durata media della vita delle donne è di cinque-sei anni superiore a quella degli uomini (non a caso le pensioni di reversibilità sono percepite in larghissima maggioranza da donne). Aggiungere a questo dato di fatto demografico un vantaggio previdenziale di cinque anni, come è stato per decenni e, secondo l’ultima manovra, si continuerà a fare ancora per numerosi anni, significa versare una pensione alle ex lavoratrici mediamente per un periodo di 10-11 anni superiore alla lunghezza del trattamento previdenziale medio degli uomini. Paradossalmente, e facendo arrabbiare qualche femminista, essendo ora in corso di implementazione pratica il principio che l’età della pensione va allungata parallelamente all’allungamento della speranza di vita, se si dovesse applicare quel principio separatamente per il genere femminile e per quello maschile, si dovrebbe fissare un’età di pensionamento più elevata per il primo che per il secondo. Si tratta beninteso di una provocazione che provvediamo immediatamente a ritirare. Per tutte le buone ragioni fin qui elencate non si può condividere la posizione di chi sostiene l’intangibilità del differente trattamento pensionistico delle lavoratrici del settore privato rispetto a quelle del pubblico e ai lavoratori maschi.

E’ condivisibile, invece, l’approccio sostenuto da più parti e con particolare foga dalla radicale Emma Bonino, tradotto infine nel caso delle dipendenti pubbliche in un preciso impegno di governo e puntualmente disatteso, secondo cui una parte dei risparmi derivanti dall’aumento dell’età di pensionamento femminile va destinato allo sviluppo del welfare, di tutti quei servizi già citati in precedenza e di altri ancora, con l’obiettivo di alleggerire il lavoro di cura. Un’ultima considerazione: se il governo, anziché spalmare l’intervento su questa annosa e più che matura questione fra il 2020 e il 2032, avesse fortemente accelerato i tempi della parificazione, si sarebbero potuti evitare molti provvedimenti, quelli sì realmente vessatori, presi con la recente manovra poliennale e molti altri che rischiamo di dover inghiottire quando si appaleserà che il riequilibrio dei conti pubblici richiederà ulteriori sacrifici. Una delle massime esperte italiane di previdenza, Elsa Fornero, è convinta che il gradualismo previsto dal governo non sia affatto credibile: è una riforma “scritta sulla sabbia”.

E’ difficile capire in base a quale logica il governo non abbia avuto il coraggio di avviare fin da subito l’equiparazione dell’età di pensionamento delle donne, rinunciando a punire i pensionati con il taglio dell’indicizzazione. C’è da scommettere che, magari tra un paio d’anni, quel provvedimento sarà anticipato”. Per intanto si tagliuzza di qua e di là, vessando a più non posso, come nell’esempio già citato dalla Fornero della riduzione o eliminazione dell’indicizzazione delle pensioni medie o “alte” o in quello dell’aumento dell’età di uscita per chi ha raggiunto i quarant’anni di anzianità. Per inciso: perché il populismo berlusconiano e il classismo “de sinistra” sono incapaci di concepire (e di non “molestare”) assegni di quiescenza di tre-quattro-cinquemila euro, cui corrisponde ormai sempre più (con il regime contributivo) il versamento di una montagna di contributi durante la vita lavorativa?

E come mai intervenire sulle pensioni anziché, tanto per esemplificare, sui redditi degli impiegati comunali o su quelli degli idraulici o dei periti meccanici? Insomma perché prendersela con una categoria che oltretutto non ha alcuna possibilità di difendersi e recuperare il maltolto con strumenti contrattuali, anziché con la platea complessiva dei detentori dei redditi più alti? La spiegazione è evidente: il governo Berlusconi è terrorizzato dai possibili effetti elettorali negativi che avrebbe, ad esempio, un aumento delle aliquote sui redditi più elevati (non auspicabile, s’intende: assai meglio tagliare le spese). E allora “dagli al pensionato”, d’oro, s’intende.

P. S. Come si può notare, non ho mai parlato dell’aumento dell’età pensionabile delle donne dai 60 ai 65 anni: ormai questi sono punti di riferimento obsoleti. La questione di cui qui si tratta è l’aumento di cinque anni dell’età pensionabile delle lavoratrici del settore privato. Mano a mano che, assai lentamente a quanto è stato fin qui deciso, il gap tra uomini e donne verrà colmato, per entrambi i generi matureranno altri incrementi nell’età richiesta, dovuti al progressivo adeguamento della stessa alle crescenti aspettative di vita. Di qui le stime che prevedono che già nel 2032 la vera età minima necessaria per il pensionamento di donne e uomini sarà di 67 anni e 2 mesi, mentre si aggirerà intorno ai 70 anni nel 2050. Considerato che si va verso la compiuta realizzazione di un sistema contributivo, una riforma su cui si dovrebbe riflettere riguarda il fatto che, fissata un’età di riferimento per la pensione adeguatamente alta per tenere in equilibrio il sistema, dovrebbero venire stabiliti incentivi e disincentivi per chi, rispettivamente, rimanga più a lungo al lavoro o desideri abbandonarlo prima. Ma questo è un altro discorso.