Perché il Pd non può fare un Governo con M5s: riformismo è progresso, non rivoluzione

di Giovanni Valentini
Pubblicato il 5 Aprile 2018 - 11:40 OLTRE 6 MESI FA
Elezioni 2018. Perché il Pd non può fare un Governo con M5s: riformismo è progresso, non rivoluzione

Perché il Pd non può fare un Governo con M5s: riformismo è progresso, non rivoluzione (nella foto, Giovanni Valentini)

ROMA – Perché il Pd non può fare un Governo con M5s: riformismo è progresso, non rivoluzione.

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La Sinistra riformista non può arrendersi alla demagogia, intima Giovanni Valentini in questo articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” il 4 aprile 2018.

Fra i tanti effetti collaterali provocati dallo “tsumani” elettorale delle ultime politiche, ce n’è uno in particolare che merita una riflessione più attenta e meditata: riguarda la sconfitta o la resa della sinistra riformista. Ma in qualche caso, come vedremo più avanti, si potrebbe parlare anche di un tradimento collettivo. Fa specie in effetti leggere su alcuni giornali e da parte di alcuni autorevoli opinionisti che fino a un mese fa criticavano il populismo e la demagogia del M5S, analisi e commenti che individuano nel Movimento la “nuova sinistra”, esortando anzi il Pd a confluire in un immaginario “partito unico della sinistra” e ovviamente a fare un accordo di governo con i Cinquestelle. Delle due, l’una: o questi osservatori hanno sbagliato finora o più verosimilmente sbagliano adesso.

Quello che più sorprende e colpisce, comunque, è la repentina capacità di cambiare giudizio e atteggiamento, come se il responso del popolo sovrano avesse quasi un potere taumaturgico, tale da cancellare le critiche e sanare di colpo i limiti e i vizi che ne erano oggetto. O stiamo assistendo a un’operazione di puro trasformismo, nel tentativo di correre in aiuto del vincitore – come diceva sarcasticamente Ennio Flaiano – secondo un antico malcostume italiano. Oppure, si tratta di una rimozione della sinistra riformista, o riformatrice che dir si voglia, simile alla furia iconoclasta con cui i talebani demolirono le statue dei Buddha in Afghanistan.

Ora è vero che i partiti d’ispirazione socialista o socialdemocratica sono in crisi in tutta Europa. Ed è vero anche che in Italia il Pd ha subìto prima una scissione interna a opera dei dissidenti, criticata a suo tempo dagli stessi opinionisti e commentatori di cui sopra, e poi ha sofferto una consistente emorragia di voti a favore del M5S. Ma forse, prima di mettere in liquidazione la cultura politica e la tradizone del riformismo, sarebbe bene interrogarsi sui motivi di questo declino, sulle cause ed eventualmente sui possibili rimedi. Se non altro per non prendere abbagli che in futuro potrebbero risultare tanto ingannevoli quanto pericolosi.

Il logoramento o l’usura della sinistra riformista, in Italia e in un’Europa sempre più dominata dalla burocrazia di Bruxelles, va collocata innanzitutto nel contesto di una crisi epocale, economica e sociale, su scala planetaria. Due sono le cause principali: il processo di informatizzazione che distrugge occupazione e nel contempo l’emigrazione di massa che alimenta un esodo biblico dal Sud al Nord del mondo, cioè dai Paesi più poveri a quelli più ricchi. Tutto ciò ha radicalmente modificato il mercato del lavoro, caposaldo della sinistra tradizionale, da una parte eliminando mansioni e funzioni e dall’altra aumentando la concorrenza di manodopera a basso costo.

In questo contesto, è naturale che i partiti o i movimenti cosiddetti populisti abbiano conquistato spazio e consenso, all’insegna della demagogia più cinica e spregiudicata. Il mito o l’utopia dell’uguaglianza assoluta ha ripreso così vigore, diventando irresistibile agli occhi di tanti emarginati e diseredati. Ma la storia insegna che spesso anche nei Paesi in cui vige tuttora il comunismo, come in Russia o in Cina, non solo l’uguaglianza non è stata garantita a tutti, ma anzi s’è rivelata illusoria favorendo piuttosto i plutocrati o i “mandarini” al riparo del più bieco capitalismo e comprimendo ai minimi termini la democrazia.

La sinistra riformista ha seguito, invece, una “terza via”: la maggior riduzione possibile delle disuguaglianze, per assicurare a tutti parità delle condizioni di partenza ed equivalenza dei servizi sociali fondamentali (sanità, istruzione, trasporti). Non sempre c’è riuscita e non dovunque. Ma questa rimane la differenza sostanziale fra progressisti e rivoluzionari, o pseudo-rivoluzionari; fra chi vuole cambiare il sistema per migliorarlo e chi vuole abbatterlo per sostituirlo con uno alternativo non meglio identificato.

Per applicare dunque questa riflessione all’attuale situazione politica italiana, il Partito democratico commetterebbe un suicidio politico se si alleasse con i Cinquestelle a livello di governo. Non per un fatto di risentimento o di rancore. Bensì per una questione di compatibilità, nella visione della società, nei programmi e negli obiettivi. Diventerebbe complice di impegni o promesse che non potranno essere mantenuti, rischiando di subirne direttamente i contraccolpi e le conseguenze.

Prendiamo il mitico reddito di cittadinanza. Sotto i governi di Renzi e Gentiloni, il Pd ha introdotto il cosiddetto “Rei”, reddito di inclusione, che favorisce appunto l’inserimento nel mondo del lavoro ed è limitato nel tempo. Altrettanto, per la verità, aveva già fatto la Regione Puglia sotto la presidenza di Michele Emiliano, con il “Red” ovvero il reddito di dignità che in sostanza ha caratteristiche analoghe. Quello annunciato e promesso dai Cinquestelle in campagna elettorale, invece, è in realtà un sussidio pressoché automatico di disoccupazione che ha rischiato e rischia di alimentare un inganno: tant’è che, all’indomani del voto, molti cittadini – specialmente giovani e meridionali – hanno preso d’assalto gli uffici pubblici per richiederne l’immediata erogazione.

La verità è che con la demagogia si possono anche vincere le elezioni, ma non si governa e soprattutto non si soddisfano i bisogni reali della popolazione, a cominciare da quello del lavoro. Ecco perché il populismo non va d’accordo con il riformismo. Ed è proprio questa la ragione per cui ora il Partito democratico non deve commettere l’errore di consegnarsi ai suoi avversari politici.