Pensioni d’oro, la Corte Costituzionale conferma il taglio, solo per 3 anni, 5 anni sono troppi anche per loro

di Pierluigi Franz
Pubblicato il 23 Ottobre 2020 - 11:06 OLTRE 6 MESI FA
Pensioni d'oro, la Corte Costituzionale conferma il taglio, solo per 3 anni

Pensioni d’oro, la Corte Costituzionale conferma il taglio, solo per 3 anni

Pensioni d’oro, il taglio fu ok. Ma solo per 3 anni. non per 5.  E anche il blocco della perequazione. La Corte Costituzionale ha deciso.

La Corte Costituzionale ha deciso che è pienamente legittimo il taglio per la durata di 3 anni dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2021 sulle pensioni INPS ed ex INPDAP superiori ai 100 mila euro lordi l’anno. Il taglio fu introdotto per legge lo scorso anno. Consiste nella decurtazione di tutti i trattamenti di quiescenza dei dipendenti statali e privati. Ad eccezione dei liberi professionisti. Medici, avvocati, dottori commercialisti, notai, ragionieri, geometri, ingegneri, architetti, giornalisti, ecc. iscritti ad apposite Casse previdenziali. 

Ed è anche legittimo il blocco triennale della perequazione 2019-2021 che ne ha impedito la successiva rivalutazione sugli importi pensionistici eccedenti i 100 mila euro lordi l’anno.

Il contentino di due anni

I giudici della Consulta,  presieduta da Mario Rosario Morelli, come “contentino”, hanno, invece, bocciato il taglio sulle pensioni INPS ed ex INPDAP superiori ai 100 mila euro lordi l’anno per il periodo 1° gennaio 2022 al 31 dicembre 2023. Questa ulteriore durata prevista per legge anche per il 4° e 5° anno è stata ritenuta eccessiva rispetto all’orizzonte triennale del bilancio dello Stato.

È questo il verdetto dell’Alta Corte, reso noto in un comunicato stampa atteso da migliaia di magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari in pensione. Nonché da avvocati dello Stato in pensione, da ex ambasciatori, da ex generali, ex ammiragli ed altri militari in pensione, da dirigenti pubblici e da manager privati in pensione. La motivazione della importante sentenza si conoscerà nelle prossime settimane. A sollevare il caso erano state sei ordinanze emesse dalla Corte dei Conti del Friuli-Venezia Giulia, del Lazio, della Toscana e della Sardegna. Oltre che dal tribunale del lavoro di Milano.
 
La Corte Costituzionale era chiamata a pronunciarsi su una questione giuridica molto complessa e dibattuta. Destinata a far discutere dentro e fuori il Parlamento in questo momento di pandemia da coronavirus Covid-19. Il taglio per la durata di 5 anni dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2023 sulle pensioni INPS ed ex INPDAP superiori ai 100 mila euro lordi l’anno. Introdotto per legge lo scorso anno.

La normativa è stata immediatamente contestata con migliaia di ricorsi

A partire dal 17 ottobre 2019 sono così giunte a palazzo della Consulta sei ordinanze emesse dalla Corte dei Conti del Friuli-Venezia Giulia, del Lazio, della Toscana e della Sardegna, Oltre che dal tribunale del lavoro di Milano. Che hanno ritenuto violati gli articoli 3, 23, 36, 38, 42, 53, 81 e 117 della Costituzione. Nonché l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. E delle libertà fondamentali e l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E delle libertà fondamentali. Perché la legge varata dalle Camere alla fine del 2018 non rispetterebbe i tre fondamentali principi posti dalla Carta repubblicana in tema di previdenza, cioé ragionevolezza, adeguatezza e affidamento. 

L’udienza pubblica nello storico edificio settecentesco opera del Fuga in piazza del Quirinale è stata aperta dalla relazione con cui il giudice costituzionale Stefano Petitti (già presidente di Cassazione) ha illustrato la questione per filo e per segno in ogni dettaglio. Ricordando anche le precedenti decisioni in materia emesse dall’Alta Corte. 

Contraddittorio in remoto

Poi si sono fronteggiati, anche in video conferenza da remoto, i due opposti schieramenti. Da un lato, i legali che assistono i ricorrenti in questa battaglia giudiziaria (professor Massimo Luciani e avvocati Mario Rampini, Gaetano Viciconte, Nicola Leone, Vincenzo Fortunato e Francesco Saverio Marini). Hanno invocato una dichiarazione di incostituzionalità dei commi 260 e 261 della legge di stabilità per il 2019.

Mentre dall’altro i legali dell’INPS (avvocati Antonella Patteri, Luigi Caliulo, Giuseppina Giannico e Sergio Preden) e dell’Avvocatura Generale dello Stato (avvocati Federico Basilica, Ruggero Di Martino e Fabrizio Fedeli) replicheranno. Che è tutto in regola e che il taglio delle pensioni e il blocco della perequazione sono perfettamente legittimi.  

Due sono i famigerati commi della legge n. 145 del 30 dicembre 2018. Il primo, il 260, “congela” la rivalutazione delle pensioni INPS ed ex INPDAP oltre i 100 mila euro lordi l’anno. Mentre il secondo, il 261, prevede che dal 1° gennaio 2019 per la durata di cinque anni i trattamenti pensionistici che superino l’importo di 100 mila euro lordi su base annua sono ridotti.

L’aliquota è: 

pari al 15 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro; 

pari al 25 per cento per la parte eccedente i 130.000 euro fino a 200.000 euro; 

pari al 30 per cento per la parte eccedente i 200.000 euro fino a 350.000 euro; 

pari al 35 per cento per la parte eccedente i 350.000 euro fino a 500.000 euro; 

e pari al 40 per cento per la parte eccedente i 500.000 euro.  

Uno dei punti in discussione soprattutto da parte dei magistrati ed avvocati dello Stato in pensione è proprio il fatto che il taglio della pensione oltre i 100 mila euro non tiene minimamente conto degli anni di effettiva contribuzione versata in attività di servizio. In pratica la legge si limita a colpire automaticamente in percentuale l’importo del trattamento di quiescenza superiore ai 100 mila euro lordi l’anno. Ma senza verificare quanti contributi previdenziali sono stati realmente pagati durante l’attività lavorativa dai magistrati e dagli avvocati dello Stato.  

La Corte dei Conti della Sardegna obiettò

Nell’ordinanza della Corte dei Conti della Sardegna dell’11 febbraio scorso otto tra magistrati ordinari, contabili e militari hanno lamentato di aver visto decurtare notevolmente le loro pensioni. Nonostante fossero stati collocati in quiescenza alla soglia dei 75 anni. E quindi ben oltre il compimento dei 70 anni e di aver versato contributi previdenziali per circa 50 anni. Ma la loro pensione, pur superiore ai 100 mila euro lordi l’anno, è stata calcolata solo su 40 anni di contributi.  

In pratica costoro avrebbero perso ciascuno circa 10 anni di contributi versati e nello stesso tempo per effetto del comma 261 anche una bella fetta della pensione! Insomma, si sarebbe così venuta a creare un’ingiustificata sperequazione ai loro danni. Perché avrebbero subìto una duplice ed ingiusta penalizzazione rispetto ad altri dipendenti pubblici andati in pensione in età molto più giovane rispetto ad essi e con minori contributi versati. 

In tutte le ordinanze giunte all’Alta Corte si contestava poi che sarebbe stato intaccato il principio dell’intangibilità della pensione con un taglio oltre quota 100 mila euro lordi annui ritenuto illegittimo perché avente natura tributaria. La riduzione dei trattamenti di quiescenza rappresenterebbe infatti un vero e proprio prelievo coattivo correlato a uno specifico indice di capacità contributiva con l’introduzione di una misura quinquennale. Che appare non transitoria, in quanto si protrae oltre l’arco temporale della programmazione pluriennale di bilancio. In pratica non sarebbe conseguente a situazioni emergenziali, ma sarebbe giustificata da esigenze di fiscalità generale. 

La sentenza Tesauro

Si incorrerebbe pertanto nell’incostituzionalità del comma 261 per violazione dell’art. 53 della Costituzione. Come già deciso dai giudici della Consulta nella storica sentenza n. 116 del 2013, redatta dal professor Giuseppe Tesauro. Che bocciò un analogo taglio di tutte le pensioni pubbliche e private proprio per la sua natura tributaria.    

Infine i 15 giudici della Consulta dovevano anche esprimersi sul caso emblematico, riguardante il consistente taglio del trattamento di quiescenza INPS del 69enne napoletano Federico Imbert. Figura mitica della finanza milanese e considerato uno dei più noti ed esperti banchieri d’investimento italiani. Andato in pensione dopo una lunga carriera internazionale in JP Morgan, vissuta tra le City di Londra, New York e Milano. E per anni numero uno per l’Italia di Credit Suisse.

Il caso Imbert

Per effetto dei suoi consistenti contributi previdenziali versati durante l’attività lavorativa la sua pensione INPS è tra le più alte d’Italia. Circa 873 mila euro lordi l’anno (per la precisione 872.795,04 euro). Ma per effetto dei commi 260 e 261 si é ridotta di 21 mila euro lordi al mese (20.644,25 per effetto del taglio più la differenza per il blocco della perequazione), cioè di circa 300 mila euro l’anno.  

Il caso Imbert era stato sollevato con un’articolata ordinanza del tribunale del lavoro di Milano (ha occupato ben 10 pagine della Gazzetta Ufficiale),