Pensioni perequazione. Scrivete a Inps: Dacci i nostri soldi

di Pierluigi Franz
Pubblicato il 24 Novembre 2015 - 11:53 OLTRE 6 MESI FA
Pensioni perequazione. Scrivete a Inps: Dacci i nostri soldi

Pensioni perequazione. Scrivete a Inps: Dacci i nostri soldi

ROMA – I sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno detto: “Il bonus non basta”. Dalla Spezia è partita la riscossa dei pensionati, sono 24 mila nella sola provincia della Spezia quelli interessati, con pensioni fra i 1.550 e i 2.000 euro netti al mese. Cgil, Cisl e Uil li hanno esortati a scrivere all’Inps mandando una raccomandata in cui chiedono la restituzione dei soldi del blocco delle rivalutazioni imposto dalla legge Fornero, considerato illegittimo dalla Corte Costituzionale e negato dal Governo.

L’iniziativa è coraggiosa e se troverà seguito rappresenterà anche un bel passo avanti sulla strada della democrazia partecipativa di cui tanti cianciano ma di cui tutti hanno paura. La notizia è stata data dal quotidiano on line La Citta di La Spezia (leggi qui).

Sono 24mila i pensionati spezzini che rientrano nei parametri indicati dai sindacati che portano avanti la vertenza contro il blocco delle rivalutazioni delle mensilità imposto negli anni 2011 e 2012 dalla Legge Fornero. Si tratta di un plotone composto da tutti colori che hanno pensioni comprese tra tre volte il minimo e sei volte il minimo, ovvero tra i 1.500 e i 3.000 euro netti.

“Invitiamo questi pensionati a scrivere una raccomandata all’Inps di competenza per ottenere lo sblocco della rivalutazione pensioni, così come è stato sancito dalla sentenza numero 70/2015 della Costituzionale”. E’ questo l’appello lanciato questa mattina da Carla Mastrantonio, segretaria Spi Cgil, Erminio Beggi, Fnp Cisl, e Marcello Notari, Uil Pensionati, che hanno anche spiegato le modalità con le quali sarà portata avanti la battaglia legale contro il governo, che ha bloccato le rivalutazioni per una somma di 18 miliardi di euro, restituendone solamente 2, dopo il pronunciamento di condanna della Corte.

Con l’invio delle raccomandate, per il quale c’è tempo sino a fine 2016, verranno bloccati i termini della prescrizione per la restituzione delle somme di denaro. Poi, anche in considerazione del fatto che in caso di sconfitta vengono addebitati i costi del processo, saranno avviate cause pilota. Nel frattempo si potrà procedere con l’invio delle raccomandate per le quali i sindacati si possono rivolgere alle nostre sedi sindacali presenti sul territorio: “Garantiamo consulenza e assistenza ai pensionati, compreso il facsimile della lettera. E’ importante che tutti la facciano”, insistono i tre rappresentanti delle parti sociali. La mobilitazione ha preso il via circa due mesi fa, assieme alla richiesta di reintrodurre i meccanismi di flessibilità tolti dalla Fornero e alla riattivazione delle risorse per i lavori usuranti.

“I soldi bloccati – proseguono Mastrantonio, Beggi e Notari – sono quelli versati nel corso degli anni dai lavoratori, sono stati inseriti in un fondo e l’Inps li deve restituire. Sappiamo che le somme di cui si parlano sono imponenti, ma siamo anche disposti a trovare una soluzione per la rateizzazione. Invece dal governo non sembra esserci alcuna intenzione di dialogare, visto che il tavolo nazionale sulla questione è stato convocato un paio di volte, poi più niente. E anzi Renzi ha posticipato al 2018 la fine del taglio delle rivalutazioni previsto per il 2016. Nonostante la sentenza della Corte costituzionale, quindi si persevera nell’errore”. E intanto sono già centinaia le lettere inviate all’Inps dai pensionati spezzini. (T. H. De Luca, La Citta di La Spezia).

A proposito di blocco della perequazione automatica delle pensioni, è utile ricordare cosa dice la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia. Segnaliamo e pubblichiamo un articolo di Francesco Alvaro per Altalex.

L’art. 24, comma 25, D.L. n. 201/2011 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1 della L. 214/2011, ha limitato, per il biennio 2012/2013 la perequazione del trattamento pensionistico solamente in favore delle prestazioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS (e, cioè, fino all’importo di € 1.216,00, netti).

Simile disposizione, come noto, è stata sottoposta al vaglio dinanzi alla Corte Costituzionale, la quale con la sentenza n. 70 del 30 aprile 2015, pubblicata sulla G.U. del 6.5.2015, n. 18, ne ha sancito l’incostituzionalità.

A seguito della declaratoria di incostituzionalità, l’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 65 del 2015, conv. in L. n. 109/2015, è intervenuto sul sistema ritenuto illegittimo, prevedendo una parziale maturazione della perequazione, nei seguenti termini:

a) nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS;

b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS;

c) nella misura del 20 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS;

d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS.

In pratica, quindi, la perequazione non è riconosciuta solamente ai trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS.

La disposizione, inoltre, con l’introduzione del comma 25 bis, ha previsto le modalità di incidenza della predetta perequazione per il biennio 2014 e 2015.

Durante la pendenza del giudizio di costituzionalità, è stata emanata la legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge di stabilità»), la quale, all’art. 1, comma 483, lettera e), ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici.

Nel triennio in oggetto, la perequazione si applica nella misura:

del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento minimo;
del 95 per cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il trattamento minimo e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo;
del 75 per cento per i trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo;
del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque volte e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS.

Da simile impostazione si deduce che, quanto meno per il prossimo futuro, l’integrale perequazione del trattamento di pensione è da escludersi, essendo la stessa riconosciuta in percentuali con andamento inverso all’entità del trattamento percepito, fino alla soglia non eccedente sei volte il trattamento minimo INPS.

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L’evoluzione della disciplina sulla perequazione del trattamento pensionistico

La sentenza n. 70/2015 ha il pregio di riproporre l’excursus storico della disciplina in questione.

La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), all’art. 10, con la finalità di fronteggiare la perdita del potere di acquisto che le prestazioni previdenziali subiscono nel corso del tempo.

Per perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in questione ha subito numerose modificazioni.

Con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento dell’importo delle pensioni, si scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.

Con l’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante “Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”, oltre alla cadenza annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di perequazione automatica, si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Tale modifica mirava a compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali, al fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia.

Successivamente sul meccanismo di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici (c.d. perequazione) è intervenuto l’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 e si prefigge di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione.

Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di rivalutazione delle pensioni si applica ad ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria.

L’aumento della rivalutazione automatica opera, ai sensi del comma 1 dell’art. 34 citato, in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo.

Tuttavia, già con l’art 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 è stato previsto che il sistema di perequazione automatica dovesse trovare applicazione soltanto per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il minimo INPS.

Per i trattamenti più elevati, esso spetta nella misura:

del 90 per cento per le fasce di importo da tre a cinque volte il trattamento minimo INPS;
del 75 per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo.

Questa impostazione è stata seguita in successivi interventi legislativi, nell’ambito dei quali, talvolta, si è provveduto a migliorare le percentuali di perequazione.

Ciò è accaduto con l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 3 agosto 2007, n. 127, che prevede, in deroga allo schema precedente, per il triennio 2008-2010, una perequazione al 100 per cento per le fasce di importo tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS.

La disciplina, pertanto, risulta “mobile”, in relazione alle variabili esigenze connesse con la legislazione in materia di finanza pubblica (rispetto ai cui vincoli si era già pronunciata C. Cost. n. 226 e n. 477 del 1993), diretta, tra l’altro, al raggiungimento del pareggio di bilancio, principio, questo, che oggi è stato assunto a rango ed ordine costituzionale.

Simile mobilità, in ogni caso, non deve mai incidere sull’adeguatezza del trattamento pensionistico, il quale deve risultare sufficiente e proporzionato al reddito percepito in costanza di attività lavorativa, nel rispetto dell’art. 36 Cost., da cui “consegue l’esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo” (C. Cost. n. 226/1993; n. 173/1986 e n. 501/1988; C. Cost. n. 26/1980).

Questa garanzia di adeguatezza della pensione, però, non può tradursi in un rigido meccanismo di perequazione, sussistendo una sfera di discrezionalità riservata al legislatore per l’attuazione graduale dei detti precetti, la corretta esecuzione dei quali “non comporta … la necessaria ed integrale coincidenza tra la pensione e l’ultima retribuzione, né un costante adeguamento al mutevole potere di acquisto della moneta, specie per effetto della svalutazione monetaria” (così, C. Cost. n. 202/2006, n. 531/2002 e n. 173/1986) “e della variazione del costo della vita” (C. Cost. n. 20/1991).

Di qui si desume e si arguisce che per la C. Cost. la perequazione del trattamento pensionistico è necessaria, se non obbligatoria, ma che i limiti e le modalità del sistema di adeguamento rientrano nella pertinenza decisionale del legislatore, ferma restando la necessaria “commisurazione del trattamento di quiescenza al reddito percepito in costanza di rapporto di lavoro” (C. Cost. n. 119/1992).

Ciò che certamente non può e non deve accadere è che il processo di perequazione risulti definitivamente vanificato, anche per motivi dettati dagli andamenti della finanza pubblica (C. Cost. n. 99/1995).

I motivi fondanti le eccezioni di costituzionalità proposte avverso la limitazione all’integrale perequazione del trattamento pensionistico.

Come si è già evidenziato, il dato da cui trarre le fila è che la perequazione integrale sul trattamento pensionistico non è più garantita, essendo, di volta in volta, limitata a seconda delle esigenze imposte dall’andamento della spesa pubblica.

Occorre chiedersi se una simile prospettiva sia compatibile con l’assetto costituzionale, nella consapevolezza che oggi il sistema perequativo, seppur in termini percentualmente ridotti ed a differenza di quanto previsto per il biennio 2012/2013 (dalle norme dichiarate incostituzionali) è garantito ad eccezione dei trattamenti pensionistici eccedenti di sei volte quello minimo (esclusione, questa, già contemplata nella L. n. 247/2007 ed avallata dalla C. Cost. con la sentenza n. 316/2010).

La verifica deve tenere conto sia della posizione assunta dalla Corte Costituzionale in relazione sia agli interventi di politica economica incidenti sui trattamenti previdenziali e retributivi sia alla sostanziale strutturalità dell’incidenza, di simili interventi, sul diritto all’integrale adeguamento dei trattamenti.

Gli interventi idonei a ripercuotersi sui predetti trattamenti, infatti, rischiano di porsi in contrasto con i seguenti principi costituzionali:

– con l’art. 38, secondo comma, Cost., poiché l’assenza di rivalutazione impedirebbe la conservazione nel tempo del valore della pensione, menomandone l’adeguatezza;

– con l’art. 36, primo comma, Cost., in quanto il blocco della perequazione lederebbe il principio di proporzionalità tra la pensione, che costituisce il prolungamento della retribuzione in costanza di lavoro, e il trattamento retributivo percepito durante l’attività lavorativa;

– con l’art. 53 Cost., nell’ambito del principio di universalità dell’imposizione e di quello di non discriminazione ai fini dell’imposizione e di parità di prelievo, poiché, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura adottata si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, non connessa all’esistenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e collegata esclusivamente alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante;

– con l’art. 3 Cost., in tema eguaglianza (già sancito con la sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 2012), secondo cui lo Stato, seppure può sopperire a difficoltà di ordine economico e finanziario anche con il ricorso a strumenti eccezionali, deve comunque garantire i servizi nel rispetto dei diritti fondamentali.

Simili motivi, ovviamente, assumono una diversa valenza a seconda che i provvedimenti legislativi oggetto dell’impugnazione prevedano:

– il blocco assoluto della perequazione, garantito solo alle fasce più deboli (come accaduto con l’art. 24, comma 25, D.L. n. 201/2011);

– il blocco della perequazione per i trattamenti eccedenti una determinata soglia (come accaduto con la L. n. 247/2007, anch’essa oggetto di giudizio costituzionale);

– la riduzione percentuale progressiva del trattamento, come previsto dalla normativa emanata in esecuzione della pronuncia della Corte Costituzionale e come già disposto in merito al triennio 2014-2016 (L. n. 147/2013).

Le evidenziate, potenziali, ragioni di incostituzionalità, inoltre, sono quelle che, comunemente, riguardano anche le disposizioni, di recente conio legislativo dirette ad incidere sulla rivalutazione dei trattamenti economici nel pubblico impiego e sul sostanziale blocco dei rinnovi contrattuali, previa paralizzazione della contrattazione.

Ciò è accaduto, a partire dal 2010, giusta la previsione di cui all’art. 9, commi 1 e 17, primo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, conv. con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, e dell’art. 16, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, i cui effetti sono stati cristallizzati dall’art. 1, commi 254 e 255, della legge n. 190 del 2014, che estende fino al 2015 il “blocco stipendiale” e definisce, sino al 2018, l’indennità di vacanza contrattuale sulla base di quella prevista per il 2013 (in ottemperanza alla previsione di cui al d.P.R. n. 122 del 2013 ed alla L. n. 147 del 2013).

Anche in merito a simili disposizioni si è espressa la C. Cost., con la sentenza n. 178 del 23 luglio 2015, i cui principi non possono non essere tenuti nella presente trattazione, soprattutto laddove hanno ritenuto che il blocco stipendiale quinquennale non violasse l’art. 36 Cost., risultando “solamente” lesivo delle prerogative sindacali alla contrattazione e, quindi, contrario all’art. 39 Cost.

Il principio della ragionevolezza come limite entro cui operare gli interventi incidenti sui trattamenti pensionistici dovuti a ragioni di finanza pubblica.

Tutti i provvedimenti diretti alla riduzione od alla sospensione dei trattamenti economici spettanti ai lavoratori pubblici dipendenti od ai soggetti titolari di trattamento di pensione sono giustificati da ragioni di finanza pubblica e di contenimento della spesa, le quali, oggi, confluiscono anche nel principio del pareggio di bilancio, elevato a rango costituzionale e contenuto nell’art. 81, Cost.

L’esistenza dei predetti interventi, e dei presupposti sui quali i medesimi sono fondati, è nota da tempo ed ha già visto cimentarsi la Corte Costituzionale, che nel lontano 1990, con l’ord. n. 401, ebbe modo di sottolineare la discrezionalità del legislatore negli interventi per il miglioramento e la perequazione dei trattamenti pensionistici, “i quali si realizzano con la gradualità imposta da scelte di politica sociale ed economica, in considerazione anche delle esigenze di bilancio e delle finalità di risanamento e ripianamento delle gestioni previdenziali”.

A simile principio, però, pare essersi data un’applicazione distorta, dal momento che oramai è sempre più frequente che un provvedimento legislativo, all’apparenza transitorio e giustificato da ragioni di finanza pubblica, dichiarato di natura eccezionale o straordinaria, finisca per divenire strutturale, in quanto reiterato nel corso del tempo con i successivi interventi normativi.

Il rischio di una simile reiterazione è stato evidenziato dalla sentenza n. 316/2010, con la quale la C.Cost. ha avallato il blocco perequativo riferito alle pensioni di maggiore entità (superiori di otto volte al minimale INPS), introdotto dalla L. 24 dicembre 2007, n. 247.

In particolare, la Corte ha affermato: “Dev’essere, tuttavia, segnalato che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”.

Il problema è comprendere se la sospensione dell’adeguamento, seppure non dichiarata, viene a verificarsi pure nell’ipotesi in cui la perequazione è oggetto di una costante, persistente e (in pratica) definitiva limitazione percentuale.

Il limite entro cui effettuare una simile valutazione è quello della ragionevolezza, il quale se, da un lato, presenta ambiti, confini, limiti incerti e scivolosi, dall’altro, risulta da sempre menzionato nei giudizi espressi dalla C.Cost, che già del 1986 (Sent. n. 173), ebbe modo di affermare che il legislatore, “entro i confini della ragionevolezza”, ha il potere di fissare discrezionalmente le misure e l’ammontare dei trattamenti pensionistici, anche in maniera differenziata, per le diverse categorie, rapportandoli al concreto momento storico ed economico.

Ragionevolezza, nelle sentenze della C. Cost. diviene sinonimo di razionale considerazione “delle esigenze di vita dei lavoratori e delle effettive disponibilità finanziarie” dal cui equilibrio può determinarsi “l’ammontare delle prestazioni o le modifiche della loro misura” (C. Cost. n. 374/1988, n. 531/1988, n. 390/1995, n. 372/1998 e n. 256/2001).

Affinché un intervento incidente in senso peggiorativo sui diritti dei lavoratori o dei pensionati sia ragionevole è necessario che sia dettato da una ragione di rango costituzionale, di ambito temporalmente definito, rispettosa del principio di equità ed uguaglianza.

Simili principi risultano violati tutte le volte in cui un intervento legislativo si ponga come discrezionale, sprovvisto di una inderogabile esigenza, incidente in misura notevole ed in maniera definitiva sul trattamento pensionistico spettante (C. Cost. n. 822/1988).

In tal modo, infatti, verrebbero irrimediabilmente vanificate le aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività lavorativa, con contestuale violazione dei principi di garanzia della sicurezza sociale, (art. 38 Cost.), oltre che le innegabili ragioni di giustizia sociale e di equità, per cui non possono effettuarsi riforme o conseguire risultati a danno di categorie di lavoratori in genere ed in ispecie di quelli che sono prossimi alla pensione o sono già in pensione (in questo senso, ancora, C.Cost. n. 822/1988).

Da ciò deriva che diviene sempre possibile un intervento legislativo che, per una inderogabile esigenza di contenimento della spesa pubblica, riduca “in maniera definitiva un trattamento pensionistico in precedenza spettante”.

Un tale intervento, però, non deve mai provocare e generare una compressione delle esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale (C. Cost. n. 240/1994, n. 288/1994, n. 361/1996, n. 417/1996), dovendosi sempre e comunque garantire le esigenze minime di protezione della persona (C. Cost. n. 342/2002, n. 180/2001, n. 457/1998).

Dai principi che precedono, pertanto, emerge che una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica non possa risultare, sempre e comunque, valido motivo per determinare la compromissione “di diritti maturati o la lesione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi” (C. Cost. n. 92/2013), dovendosi valutare in concreto gli effetti dell’intervento legislativo, considerando l’intervento nel suo complesso ed il rispetto dei principi di ragionevolezza e razionalità (C. Cost. n. 3/2007).

Tutte le volte in cui questi principi sono rispettati, gli interventi legislativi possono anche avere a riguardo, riformandoli in peggio, trattamenti già in essere, con l’unico limite dell’eliminazione con effetti retroattivi (C. Cost. n. 446/2002).

Tutte le osservazioni che precedono possono riassumersi con quanto affermato da C.Cost. n. 264/2012, il quale ha evidenziato che gli interventi legislativi in esame “ricadono nell’ambito di un sistema previdenziale tendente alla corrispondenza tra le risorse disponibili e le prestazioni erogate, anche in ossequio al vincolo imposto dall’articolo 81, quarto comma, della Costituzione”, e tendono ed “assicura(re) la razionalità complessiva del sistema stesso, impedendo alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri, e così garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali”.

La illegittimità del blocco perequativo relativo al biennio 2012/2013 e la legittimità del blocco stipendiale nel pubblico impiego per gli anni 2010/2014

Preso atto di tutto quanto sopra, appare interessante esaminare, nel dettaglio quanto affermato dalla C.Cost. con le sentenze n. 70/2015 e 178/2015, laddove: con la prima, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che avevano introdotto il blocco perequativo dei trattamenti pensionistici eccedenti tre volte il minimale INPS; con la seconda è stato, nei fatti, legittimato il blocco stipendiale, nei confronti dei pubblici dipendenti, introdotto nel 2010 (la sentenza ha pronunciato l’incostituzionalità della disciplina fondando la conclusione sulla violazione delle prerogative sindacali connesse con il diritto alla contrattazione collettiva e rigettando, invece, le doglianze riferite alle violazioni degli artt. 3, 36 e 53 Cost.).

Un dato comune alle due pronunce è che le decurtazioni incidenti sui trattamenti previdenziali o retributivi, indipendentemente dalla transitorietà o permanenza dell’effetto, non possono essere considerate come prestazioni patrimoniali di natura tributaria.

Sul punto, le pronunce accolgono una nozione formalistica del concetto di imposizione tributaria, già definita con le sentenze nn. sentenze n. 219 e n. 154/2014.

Ad avviso della Corte, gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese.

Un tributo, infatti, può essere definito come un “prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva” (C.Cost. n. 102/2008) che esprime “l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria” (C.Cost. n. 91/1972, n. 97/1968, n. 89/1966, n. 16/1965 e n. 45/1964).

Nessuno degli interventi in esame poteva essere giustificato con la copertura di pubbliche spese, bensì con il semplice “risparmio di spesa” e, pertanto, la ratio dell’intervento non può essere quella tributaria.

Da una tale, condivisa, impostazione discende l’inesistenza della violazione del disposto di cui all’art. 53 Cost., le cui censure, pertanto, sarebbero destinate ad essere rigettate.

Nel giudizio deciso con la sentenza n. 70/2015, la C. Cost. è addivenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto del giudizio deducendone l’irragionevolezza, l’irrazionalità e la non proporzionalità, da cui l’«irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (in questo senso, già C. Cost. n. 349 del 1985), contestando le modalità con le quali il legislatore aveva giustificato l’intervento, diretto al risparmio della spesa pubblica.

Nella sentenza, infatti, si contesta al legislatore di non avere “operato un corretto bilanciamento degli interessi, così come necessario ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo”, in quanto “La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”.

In altre parole, la limitazione o la revoca della perequazione, di per sé, potrebbe anche essere legittima e superare il vaglio di illegittimità. Sono i presupposti sui quali il provvedimento di sospensione o di revoca si basano a non risultare idonei a giustificare il provvedimento, il quale, pertanto, diviene esso stesso illegittimo.

Nel caso di specie, inoltre, l’intervento sarebbe dovuto risultare ancor più giustificato se si considera la definitiva incidenza del medesimo sul trattamento perequativo, i cui effetti avrebbero inciso anche per il periodo successivo al biennio oggetto della dichiarata cessazione del beneficio: “un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, (deve) essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale”.

In questo senso, allora, un rilievo dirimente lo assume la durata del trattamento, la quale non può che essere transitoria, di modo da rispettare, seppur nella discrezionalità legislativa, il principio dell’adeguamento del trattamento pensionistico al costo della vita, in essere, nella sua forma originaria, fin dal 1965.

Del resto, proprio l’inesistenza degli effetti definitivi del provvedimento legislativo hanno determinato che la C. Cost., con la sentenza n. 316/2010, dichiarasse la conformità costituzionale dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, diretto ad azzerare la perequazione, solo per il 2008, dei trattamenti pensionistici di importo superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS.

Come ha affermato in motivazione la sentenza n. 70/2015, infatti, “La norma, allora oggetto d’impugnazione, ha anche superato le censure di palese irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla soppressione della rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, “di sicura rilevanza”, secondo questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione”.

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La medesima impostazione, seppure nella diversità delle argomentazioni, ha dettato le conclusioni cui è pervenuta la sentenza n. 178/2015, la quale, se, da un lato, ha ritenuto incostituzionale la disciplina sul blocco del trattamento stipendiale dei dipendenti pubblici per contrasto con l’art. 39 Cost., perché incidente sulle prerogative sindacali alla contrattazione collettiva (preclusa dal blocco stipendiale), dall’altro, ne ha confermato la legittimità in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e 53 Cost..

Il Giudice costituzionale con la pronuncia in esame ha aderito all’impostazione per cui il blocco delle retribuzioni sarebbe legittimo, in quanto circoscritto ad un periodo contenuto, in concomitanza con una situazione eccezionale di emergenza economica e finanziaria, e risponderebbe all’obiettivo di rispettare l’equilibrio di bilancio (art. 81 Cost.) adottando politiche proiettate in un periodo che necessariamente travalica l’anno.

Ad avviso della Corte “il giudizio sulla conformità al parametro dell’art. 36 Cost. non può essere svolto in relazione a singoli istituti, né limitatamente a periodi brevi, poiché si deve valutare l’insieme delle voci che compongono il trattamento complessivo del lavoratore in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza, alla luce del canone della onnicomprensività” (in tal senso, già, C. Cost. n. 154 del 2014).

E ciò anche in considerazione della programmazione pluriennale delle esigenze di finanza pubblica, nel rispetto di quanto prescritto dalla disciplina europea (“la direttiva 8 novembre 2011, n. 2011/85/UE corrobora la necessità di considerare le politiche di bilancio in una dimensione pluriennale, puntualizzando che «la maggior parte delle misure finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il ciclo di bilancio annuale» e che «[u]na prospettiva annuale non costituisce pertanto una base adeguata per politiche di bilancio solide»”.

Dal momento che gli effetti delle disposizioni censurane sono cessati alla data del 1° gennaio 2015 si è verificata la transitorietà e la temporaneità idonea ad escludere l’incostituzionalità della disposizione, in quanto “non risulta dimostrato l’irragionevole sacrificio del principio di proporzionalità della retribuzione”.

Conclusioni

In base a tutti i principi sopra esposti ed all’impostazione oramai sedimentatasi dinanzi alla Corte Costituzionale dovrà verificarsi l’esistenza dei margini idonei a fondare un’eventuale eccezione di incostituzionalità riguardante sia le disposizione emesse per far fronte alla sentenza della C.Cost. n. 70/2015, sia l’ulteriore legislazione (già esistente al momento della pronuncia – v. supra) diretta a limitare la perequazione dei trattamenti pensionistici.

Infatti, quand’anche il singolo intervento legislativo, diretto alla limitazione del sistema perequativo dei trattamenti pensionistici dovesse mostrarsi in linea con le raccomandazioni di ragionevolezza e temporaneità auspicate e raccomandate dalla Corte Costituzionale, la normativa dovrà valutarsi in ragione della sua reiterazione.

La reiterazione nel tempo, infatti, trasforma la temporaneità del meccanismo perequativo in continuità temporale, quindi, trasforma il breve periodo in medio e lungo periodo.

In questo modo, quindi, si rischia concretamente di travalicare i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, generando, di conseguenza una strutturale e irreversibile perdita del potere di acquisto.

Ciò è tanto più vero in relazione ai provvedimenti, tuttora in essere, per mezzo dei quali il meccanismo perequativo è bloccato in riguardo ai trattamenti pensionistici più elevati.

In questo senso, simili disposizioni non possono che considerarsi incostituzionali, in quanto, come affermato da C. Cost. n. 316/2010, “Dev’essere, tuttavia, segnalato che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità (su cui, nella materia dei trattamenti di quiescenza), perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”.