Cori contro Boateng, finalmente ci si ferma. Ora multe e carcere per i razzisti

di Renzo Parodi
Pubblicato il 4 Gennaio 2013 - 14:14| Aggiornato il 5 Gennaio 2013 OLTRE 6 MESI FA
Lo stadio della Pro Patria

BUSTO ARSIZIO – Era tempo che qualcuno, da dentro, gridasse che il re è nudo e che non si poteva più chiudere gli occhi. E fare finta di niente. La coraggiosa uscita dal campo di Kevin Prince Boateng, in risposta ai buu razzisti ricevuti da un gruppetto di giovani ammalati di razzismo, durante il match amichevole tra Pro Patria e Milan, riconsegna finalmente il problema alla sua dimensione reale.

Il razzismo alligna in Italia e negli stadi del calcio trova l’habitat ideale per le sue trucide esibizioni di violenza, verbale ma non soltanto, temo, se leggo bene i segnali che si moltiplicano nella cosiddetta società civile che civile purtroppo non è più e da un pezzo. Bravo il Milan-squadra a seguire il suo giocatore, abbandonando il campo in segno di protesta. E a spiegare quel gesto di sana, sacrosanta ribellione, senza se e senza ma. Non si poteva più tacere. Fare finta di niente, subire in silenzio per amore di pace.

E brava Barbara Berlusconi, che ha fatto un passo avanti in più. Ha chiesto che vengano immediatamente interrotte anche le partite vere, quelle di serie A, non appena dagli spalti piovano in campo insulti a sfondo razzista. E’ tempo che i capi del calcio, dirigenti federali, di Lega e di club, nonché gli arbitri, si assumano le rispettive responsabilità. Smettendo di nascondersi dietro la comoda foglia di fico dello show che deve andare avanti ad ogni costo.

Un tempo era la schedina del Totocalcio il Gran Moloch al quale andavano sacrificate tutte le giuste cause, in nome del fiume di denaro che finanziava non soltanto il calcio, ma l’intero movimento sportivo nazionale. Le televisioni a pagamento hanno sostituito la schedina, ma la sostanza è rimasta la stessa di allora. Non si può giocare con i padroni del calcio, con chi lo finanzia munificamente (anche troppo, in verità), consentendo ai teppisti di diventare, di fatto, i padroni del pallone. E’, quest’ultima, una giustificazione non priva di ragionevolezza. Se si certifica che ad ogni insulti razzista la partita va sospesa di fatto si consegna ai teppisti da stadio, magari manovrati strumentalmente da qualcuno, il diritto di vita e di morte sul calcio. Ma l’obiezione è altrettanto facile.

Basterebbe impedire a questa gentaglia di frequentare gli stadi. La si tenga fuori dagli impianti, non con la tessera del tifoso, un palliativo innocuo e patetico, ma copiando pari pari il modello inglese che pure, alla distanza, sta mostrando alcune crepe, come dirò. E dunque, per cominciare, fuori dagli stadi coloro che si sono macchiati di atti di teppismo – le esternazioni a sfondo razzista possono essere tranquillamente equiparate agli atti di violenza – in modo da bonificare una volta per tutte le curve turbolente dei nostri stadi.

Riconsegnandoli per davvero, non solo a parole come finora si è fatto, alla gente perbene, agli spettatori interessati a null’altro che allo spettacolo calcistico e, soprattutto, alle famiglie e ai bambini. Purtroppo la politica sportiva degli ultimi venticinque-trent’anni in Italia ha remato in senso diametralmente opposto. Dalla legge Scotti in poi (metà degli anni Ottanta) si è preferito militarizzare gli stadi, circondandoli di inferriate e barriere. Facendoli presidiare in forze, prima dentro e fuori oggi esclusivamente all’esterno, da falangi di carabinieri, poliziotti e affini. Creando precisamente quell’atmosfera da fortezza assediata tanto cara ai delinquenti travestiti da tifosi che fanno della presunta, molto presunta, passione sportiva una pratica di vita, quando non una professione, spesso ben remunerata .

Il concetto va ribaltano a 180 gradi. Fuori i teppisti dagli stadi, diventati una sorta di terreno extraterritoriale dove sono concesse azioni che altrove sarebbero duramente sanzionate sul piano penale. Pene più severe, anche pecuniarie, per chi delinque travestito da tifoso, pene accessorie a contenuto sociale per i recidivi: assistenza agli anziani e ai disabili, lavori socialmente utili, come si fa in Inghilterra. Altro che Daspo regolarmente elusi o scavalcati. E il carcere duro soltanto per i plurirecidivi, quelli insomma che mostrano di non volerne sapere di essere recuperati alla società.

Quanto al razzismo non è altro che una variante del teppismo da stadio e come tale deve essere affrontato. E represso. Nel frattempo, si fanno voti che le famiglie e la scuola recuperino i rispettivi ruoli di educazione e di indirizzo dei figli e delle giovani generazioni, ruoli ai quali hanno purtroppo abdicato, sostituite nella funzione di guida e di indirizzo principalmente dalla televisione commerciale, dai Grandi Fratelli, dagli X Factor, dalla congerie di format diseducativi, talvolta veri e propri incitamenti a tirar fuori il peggio di sé – che hanno contribuito a provocare i dilaganti sradicamento sociale e la confusione intellettuale di tanti ragazzi, i più deboli, gli emarginati, quelli privi di guida e di prospettive. Il razzismo è anche il sottoprodotto del vuoto di cultura provocato dalla scomparsa degli ancoraggi tradizionali.

La civile e avanzata Lombardia – per restare al caso ultimo di Busto Arsizio – un tempo devotamente cattolica negli strati più umili della popolazione – la piccola borghesia urbana, il mondo contadino – o laicamente avanzata e progressista nel vertice sociale rappresentato dai gran borghesi meneghini che guidarono l’industrializzazione del Paese, ha perduto quasi tutti i suoi punti di riferimento storici.

A cominciare dagli oratori e dalle parrocchie, la Chiesa militante – da non confondere con la Chiesa Istituzione di Roma che tutt’altra cosa – incarnata dalle migliaia di sacerdoti di strada e di campagna quotidianamente impegnati, un tempo non lontano, nell’educazione – non necessariamente strettamente cattolica, l’educazione tourt court, come strumento di emancipazione sociale atto ad affrontare la vita – che avevano contribuito a creato una società equilibrata e salda nei suoi orientamenti di principio, un società magari non giusta ma ragionevole. E tollerante.

Fatico a pensare che i dementi che hanno insultato Boateng e gli altri giocatori di colore del Milan conducano una vita normale, possano contare su affetti sinceri, che coltivino speranze calibrate sulla obiettiva condizione socioeconomica di ciascuno di loro. Penso ad un branco di sbandati, senza arte né parte, che hanno bisogno di distinguersi, di farsi ascoltare attraverso quegli orribili exploit, per coltivare la sensazione di essere qualcuno, di contare qualcosa nel mondo globale. Lo stadio sotto questo aspetto è la cassa di risonanza ideale per illudersi di avere un posto nella società, poiché la risonanza di tutto ciò che vi avviene è enorme. Mission accomplished, sotto questo profilo. I teppisti di Busto ce l’hanno fatta a rendersi visibili.

A dire al mondo: “Ci siamo anche noi”. Più che il carcere, a gentaglia simile, serve una severa pratica di vita, incentrata sul lavoro, la responsabilità, l’assunzione di un ruolo nella società. Magari facendo loro preventivamente pagare dazio alla stupidità esibita. Senza sconti,m senza risibili distinguo appesi al nulla. Esemplare (al contrario, s’intende) il sindaco di Busto che ha censurato Boateng per il pallone scagliato in curva: Che faccia tosta! Boateng ha fatto quello che l’arbitro, un tipino spedito da Bologna, non aveva avuto il coraggio di fare: sospendere la partita. In proposito, si gradirebbe una parola dal presidente degli arbitrio, Nicchi. Se chi dirige non vuol prendersi la responsabilità di dire basta, si affidi la decisione al responsabile dell’ordine pubblico allo stadio, il questore o suoi sottoposti. Ma risparmiateci i balletti su chi doveva fare cosa. E’ tutto tremendamente chiaro.

L’Italia non è l’unico terreno di coltura del razzismo, persino la civilissima Inghilterra, patria dei diritti civili, della tolleranza e della convivenza pacifica tra le etnie, registra preoccupanti fenomeni di intolleranza razziale, concentrati – e non deve essere un caso – proprio negli stadi del calcio. Talvolta sono gli stessi calciatori a rendersi protagonisti di episodi di aggressione razziale, come è capitato a Suarez, attaccante del Liverpool, e a Terry, difensore del Chelsea, puniti duramente con lunghe squalifiche per aver apostrofato gli avversari con epiteti a sfondo razzista. E purtroppo anche alcune tifoserie – quella del West Ham, ma non solo – si segnalano per esibizioni razziali, antiebraiche, contro quella del Tottenham, la squadra degli ebrei londinesi, accolta in trasferta con gli orribili fischi dei tifosi avversari, gli “iiihhhhssssss” corali che intendono evocare la tragedia delle camere a gas naziste. Nella patria delle libertà civili atteggiamenti razzisti non sono tollerati e le società calcistiche pagano duramente le intemperanze delle loro tifoserie. In Italia si è preferito, come al solito, chiudere gli occhi, minimizzare, buttarla in politica, aggrapparsi alla sociologia d’accatto che permette di trovare una scusa sociale a qualsiasi comportamento, anche ai più aberranti e indegni.