Vujadin Boskov, ricordo di un grande allenatore. Non solo di calcio

di Renzo Parodi
Pubblicato il 28 Aprile 2014 - 14:19 OLTRE 6 MESI FA
Vujadin Boskov, ricordo di un grande allenatore. Non solo di calcio

Vujadin Boskov quando allenava la Sampdoria (foto Lapresse)

GENOVA – Non mi è mai più accaduto, in quarant’anni di carriera giornalistica, di incontrare un allenatore e un uomo (l’uomo viene sempre prima)che assomigliasse davvero a Vujadin Boskov, scomparso domenica 27 aprile alla soglia degli 83 anni. Era ammalato da molti anni, vittima di una malattia (il morbo di Alzheimer) che in lui costituiva un crudelissimo contrappasso.

Il suo humour pungente, mai volgare, lo spirito curioso e allegro, il finisssimo intuito e una inesausta passione per la vita in tutte le sue declinazioni. Tutto annientato da quel velo maligno, steso come un sudario su una mente brillante, ridotta al silenzio e all’oblio di se stessa.

Boskov era morto da tanto tempo, almeno una decina d’anni, quando la malattia aveva devastato la mente e aveva suggerito alla moglie, la splendida, amorevole signora Yelena, di sottrarlo alla curiosità, seppure affettuosa, della gente che lo amava. Si erano ritirati in punta di piedi, basculando tra la villa di Bled e la casa della figlia Alexandra, sul lungolago di Ginevra. Con puntate sempre più rare a Nervi, dove Boskov, terminata la carriera, si era rifugiato. Un bell’appartamento con vista sui campi da tennis dei circolo “Le Palme”.

Il tennis, una delle passioni di Boskov, sportivo vero. Io stesso ho incrociato molte volte la racchetta con lui, sulla terra rossa (ora sostituita da un fondo sintetico) delle “Palme”. Nel tepore di quell’angolo di riviera incistato all’estremità orientale della città di Genova. Un villaggio, Nervi, dove tutti si conoscono e ancora dai vecchi si sente pronunciare l’aspro dialetto di Portoria, nella versione di levante. Boskov si era ambientato alla perfezione. Da pensionato, poteva finalmente godersi la vita in pieno relax. E dedicarsi allo sport preferito.

Dopo il calcio, s’intende. Il tennis fu per me un modo per avvicinarlo ancor più, capirne l’intimità profonda dello spirito, coglierne tutte le sfumature e vi assicuro che potrei scriverci un libro. Con il mio maestro, collega in giornalismo e amico carisismo, Piero Sessarego e un suo partner, Boskov e il sottoscritto formavamo doppi agguerriti, sotto il solo nerviese. In palio il caffé o l’aperitivo e tanto bastava, naturalmente.

Che tempi! Mi era accaduto di cimentarmi con un altro grande del calcio, Fulvio Bernardini. Anche lui come Boskov appassionato di tennis. Il terreno delle sfide con il Profeta (così lo avevamo soprannonimato) erano i campi in terra rossa di Bogliasco, quartier generale della Sampdoria. Bernardini ci era tornato settantenne, come direttroe sportivo e padre putativo di allenatori dei quali non è rimasta traccia. Ma si era in serie B, uno dei periodi più bui della società. Bernaridni la Sampdoria l’aveva già allenata sul finire degli anni Sessanta.

Conquistando salvezze risicate ma benedette dal bel calcio che il profeta esigeva: Come Boskov, del resto. Due esteti, prima che allenatori. Dal pulpito del suo immenso carisma, Bernardini dispensava perle di saggezza e massime di vita vissuta. Un personaggio immenso. Pendevammo dalle sue labbra. Ogni parola era una scudisciata. Ogni frase una sentenza. Sul court le gambe non gli consentivano più di muoversi come ai tempi in cui affrontava il grande Eraldo Monzeglio, suo compagno in nazionale e nella Roma testaccina. Nonché maestro dei figli del duce.

A Bogliasco Bernardini si piazzava sotto rete e tutte le palle che entravano nel raggio di azione della racchetta erano sue. Ricordo bene le sfide all’ultimo sangue con Sessarego, il compianto amico e collega Giorgio Adriani, il Profeta, a coppie interscambiabili. Bernardini mi chiamava lo spadaccino per lo stile non ortodosso con il quale brandivo la racchetta. Era la fine degli anni Settanta e io, giovane cronista sportivo al seguito della Sampdoria per la Gazzetta dello Sport, toccavo il cielo con un dito a ritrovarmi accanto a quel monumento vivente.

Una quindicina d’anni più tardi mi accostai al tennista Boskov e mi accorsi quanto quei due personaggi si assomigliassero, dentro il recinto del pallone ma anche e soprattutto fuori dalle palizzate ristrette dello sport nazionale. Smagato, alieno dalla retorica, sentenzioso e sempre pronto a riconoscere i meriti dell’avversario il dottor Bernardini. Ironico, sottile, intuitivo, allegro Boskov. Fini psicologi entrambi, tra i pochi nel mondo del calcio, a saper valutare con precisione la psicologia dei giocatori e a fabbricarne le chiavi per spalancarla al dialogo, al confronto.