Zeman-Roma, un addio annunciato: troppi equivoci e tensioni

di Renzo Parodi
Pubblicato il 2 Febbraio 2013 - 20:44| Aggiornato il 23 Maggio 2022 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Era già tutto scritto, si trattava solo di indovinare quando sarebbe accaduto. L’avventura romanista di Zdenek Zeman era fatalmente condannata a terminare. Troppo equivoci, troppe tensioni, troppe incomprensioni fra il tecnico e i giocatori e, ultimamente, anche con la società. Non poteva durare. E non è durata. L’esito traumatico dunque non sorprende.

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Il preavviso di licenziamento inviato lunedì scorso a Zeman dal ds Sabatini (“Stiamo valutando se cambiare la guida tecnica”) dopo l’ennesimo rocambolesco pareggio (a Bologna, 3-3), ha offerto alla squadra l’alibi perfetto. Non restava che affondare Zeman giocando, anzi non giocando, come è puntualmente avvenuto contro il Cagliari che ha maramaldeggiato, firmando una sentenza già scritta.

E’ logico, o perlomeno inevitabile, che l’allenatore sia il primo a pagare e tuttavia l’elenco delle colpe non esenta nessuno. La società, anzitutto. Se prendi Zeman, sai chi ti metti in casa. Zdenek allena da quasi 30 anni in Italia, il suo calcio è sempre uguale a se stesso: difesa altissima, aggressività esasperata, verticalizzazioni a ripetizione, ossessivo presidio delle fasce esterne.

Un calcio avvolgente, che piace agli esteti, un calcio godibilissimo per chi non va allo stadio reclamando la vittoria a tutti i costi. Un calcio che però, nella storia, raramente ha portato risultati decisivi. Il Pescara dell’anno scorso è la classica eccezione. Ha stradominato il campionato in serie B, grazie a tre fuoriclasse, a livello di cadette ria: Verratti, Insigne e Immobile. Sull’Adriatico, Zeman è riuscito a fare il calcio che piace a lui, a tutto campo, a darle e a prenderle.

A Roma l’alchimia non ha funzionato. La squadra non si è mai calata nelle sue idee, l’ha seguito più per disciplina che per convinzione. Ulteriori problemi Zeman se li creati da solo. Zeman ha inventato di sana pianta il dualismo dei portieri, andando a pescare uno sconosciuto arquero uruguagio, Goicoechea, dirottando in panchina il titolare, Stekelenburg.

A Zeman piaceva l’uruguagio perché sa giocare con i piedi e fa il libero uscendo dai pali come impone una difesa schierata altissima. E qui si entra nei dettagli tattici, Se giochi con la linea difensiva a quaranta metri dal portiere, devi pressare in mezzo al campo e fare diagonali forsennate. Altrimenti il giochetto per gli avversari è facilissimo.

Palla oltre i difensori – che Zeman non vuole che corrano all’indietro! – e metti l’uomo davanti al portiere. E’ accaduto un’infinità di volte. Anche a centrocampo si è andati avanti fra gli equivoci, De Rossi è stato messo da parte perché non interpreta i movimenti secondo i desideri del tecnico.

De Rossi è uno dei migliori interni del mondo, forse non si muove in campo come vorrebbe Zeman, ma si fa fatica a pensare che Thactsidis, un giovane interessante ma acerbo, possa assicurare migliori geometrie. De Rossi è tuttora uno dei migliori interni al mondo, possibile che abbia dovuto giocarsi il posto con un esordiente? Davanti il tridente zemaniano ha avuto alti e bassi, Totti si è adeguato ad un ruolo di esterno che non gradisce eppure il capitano è stato il solito trascinatore, mascherando con giocate e gol le pecche della sua squadra.

Probabilmente non è mai nata l’alchimia giusta, la Roma si è trascinata con i suoi equivoci. Talvolta travolgente, talvolta vulnerabile. Una eterna incompiuta.

La qualità media dei calciatori giallorossi è altissima– Sabatini ha ragione a rimarcarlo – e tuttavia non ha fatto quasi mai massa critica. Pjanic è un crack, Lamela un potenziale campione, Osvaldo uno dei migliori attaccanti al mondo (quando ha la luna giusta) e Destro un potenziale bomber da 15-20 gol a stagione. Ma insieme raramente hanno fatto reparto. In difesa l’esperienza di Burdisso, Balzaretti e Castan non ha legato con la freschezza di Piris. Il centrocampo (Bradley, Thactsidis, Florenzi) votato all’assalto ha faticato ad offrire le coperture giuste alla difesa. Tutto vero. Ma basta tutto ciò a spiegare la debacle? Non credo.

Gli errori della società secondo me superano i limiti dell’integralismo zemaniano, indisponibile a qualunque aggiustamento, tattico e comportamentale. Zeman lavora con l’accetta, non contempla compromessi di nessun genere ma queste sue stimmate erano note e conclamate. Detto di Zeman, vengo alla dirigenza. Illuminante sotto l’aspetto della confusione societaria la vicenda di Stekelenburg. Volato a Londra convinto di essere stato ceduto al Fulham, il portiere olandese si è sentito dire che era saltato tutto.

La Roma non era riuscita a rimpiazzarlo. Eppure il problema-portiere non era nato il giorno prima. Come vogliamo definire questa avvilente scenetta? Chiarisco che ho molta stima di Baldini e Sabatini, uomini di calcio esperti e affidabili. Ma devo prendere atto del fallimento del loro progetto. La scelta del’allenatore non è un dettaglio, è il presupposto indispensabile di qualunque successo.

L’investitura di Andreazzoli (ex secondo di Spalletti, nello staff di Zeman) per traghettare la squadra è il corollario di una stagione balorda. L’obiettivo non può essere che chiudere decorosamente. L’Europa League è raggiungibile. Meglio di niente. Sarà Blanc la soluzione per la panchina? La scelta sembrava fatta ma Blanc ha chiesto due anni e mezzo di contratto e la trattativa si è bloccata. Giusto riflettere. Baldini e Sabatini, ammesso che restino in serpa, non possono più sbagliare.

Lo scorso anno la premiata ditta Baldini & Sabatini scelse Luis Enrique, non notissimo tecnico spagnolo che aveva allenato la seconda squadra del Barcellona. Vagheggiava, la dirigenza, di trapiantare il tiki taka blaugrana sul Tevere, impresa impossibile senza Messi, Iniesta, Xavi e compagnia. A fine stagione Enrique si chiamò fuori, stremato dalle polemiche che lo avevano accompagnato passo pr passo, un campionato ondivago e tutto saliscendi come quello di Zeman.

Il calcio italiano reclama energie psicologiche enormi e non tutti reggono la sfida. Peccato perché Luis, resistendo, avrebbe migliorato il suo progetto. In estate Baldini e Sabatini convocarono Montella che avrebbero potuto (e dovuto) scegliere già l’anno prima e si sentirono chiedere dall’orgoglioso Vincenzino lo stesso stipendio di Luis Enrique (un milione e passa di euro l’anno) e la garanzia che Totti e De Rossi sarebbero stati ceduti. Finì quasi in rissa e Montella prese la strada di Firenze.

Via con Zeman, allora. Invocato dalla folla romanista, non dimentichiamolo, abbagliata dal ricordo della sua prima avventura giallorossa. Ma Zeman non è l’allenatore giusto se si vuole centrare un traguardo di classifica, quale che sia. Zeman è l’allenatore ideale per chi pretende un calcio spettacolare ed esteticamente godibile. Zeman è uno straordinario uomo di calcio che personalmente ammiro per il coraggio mostrato nel gridare che il re è nudo (ricordate la storia delle farmacie negli spogliatoi?) e per la inflessibile tenacia nel rivendica la propria filosofia che è filosofia di vita prima che di calcio.

Ma ha bisogno di una squadra che lo segua con fede cieca e non si può dire che questa sia stata la sua storia a Roma. L società lo ha difesa fin ché ha potuto. Licenziandolo, Baldini e Sabatini hanno preso una decisione inevitabile (anche i tifosi avevano fatto pollice verso a Zeman) ma di fatto si sono sconfessati da soli. Su Zeman avevano puntato tutta la loro credibilità. Hanno perso scommessa. Clamorosamente. La proprietà americana avrà preso buona nota. Sull’altra sponda dell’Atlantico, si sa, gli ideali decoubertiniani non hanno grande presa…