Camici neri al San Carlo di Potenza, gli “ominicchi” in sala chirurgia

di Riccardo Galli
Pubblicato il 4 Settembre 2014 - 14:18 OLTRE 6 MESI FA
Foto d'archivio

Foto d’archivio

POTENZA – “Dobbiamo sforzarci di ricordare i tanti medici preparati coraggiosi e perbene che tutti noi abbiamo incontrato, al Sud come al Nord, e ritrovare, così, un po’ di fiducia”. Uno sforzo non da poco quello a cui invita dalle colonne del Corriere della Sera Mario Garofalo commentando i fatti di Potenza. Quei fatti che raccontano di una donna di 71 anni morta sotto i ferri all’ospedale San Carlo non per una tragica fatalità, ma per la ben più tragica negligenza dei medici che erano intorno a lei, preoccupati però più che della salute della paziente, di non far trapelare quanto stava accadendo. Camici neri li definisce Garofalo con un tratto di penna che tratteggia come meglio non si può questi che noi definiremmo “ominicchi” in sala chirurgia .

La storia, presunta sino a che la magistratura non farà il suo corso, risale al maggio dello scorso anno. E’ allora che la signora Elisa, 71 anni e una valvola cardiaca da sostituire, viene operata nel reparto di cardiochirurgia dell’ospedale San Carlo. Un’operazione, non complicata ma certo non esente del tutto da rischi, da cui non si risveglierà mai. Complicazioni post operatorie diranno i medici ai familiari.

Poco meno di un anno dopo però la vicenda, grazie ad un esposto anonimo prima e una registrazione resa pubblica poi, finisce sul tavolo dei magistrati. Nell’esposto una ricostruzione dell’intervento talmente ricca di dettagli inquietanti da indurre il pm Anna Gloria Piccinini ad aprire un fascicolo per omicidio colposo e falso. Nella conversazione registrata un medico, presente in sala operatoria all’epoca dei fatti, racconta ad un altro medico dello stesso ospedale ma non direttamente coinvolto, come in quella sala operatoria si lasciò morire una paziente.

L’esposto, cui si aggiungerà poi la registrazione, racconta che durante le prime fasi dell’intervento una manovra errata avrebbe provocato la rottura della vena cava della paziente. A questo punto il primario Nicola Marraudino, dopo aver inutilmente tentato di fermare l’emorragia applicando un clamp (un morsetto chirurgico), avrebbe deciso di andare avanti con la sostituzione della valvola pur essendo evidente che la donna non ce l’avrebbe fatta. Nel dialogo registrato dal collega, Cavone (il medico presente in sala che racconta al collega cosa accadde) ricostruisce il ragionamento che secondo lui avrebbe fatto il primario: “Gli faccio l’intervento e poi diciamo che è morta per una complicanza”.

Il management del San Carlo, dopo che la vicenda grazie alla conversazione consegnata alla stampa è diventata di dominio pubblico, si limita a chiedere alla Società Italiana di Cardiochirurgia un audit sul reparto (positivo), ma non avvia una inchiesta interna che viaggi parallelamente a quella della magistratura.

Sforzarsi, all’ombra di questa storia, di ricordarsi dei tanti medici preparati è tanto doveroso quanto difficile. “Come nel peggiore degli incubi – scrive infatti Garofalo -, nella storia di cattiva sanità dell’ospedale San Carlo di Potenza non sembra salvarsi nessuno dei protagonisti, almeno allo stato attuale delle conoscenze e in attesa che la Procura faccia chiarezza sulla vicenda sollevata dal Fatto Quotidiano. Non si salva la voce narrante (della registrazione), il chirurgo che racconta di aver lasciato ammazzare ‘deliberatamente’ la paziente, Elisa, una donna di 71 anni. Come don Abbondio non ha il coraggio, dovrebbe andare ad autodenunciarsi e non lo fa perché, spiega, ‘passo i guai, mi licenziano’. Eppoi ha il suo tornaconto, ‘il primario lo tengo per i c…’.

Non si salva chi lo ha intercettato, perché a quanto pare è un chirurgo nemico del dirigente del reparto e non ha nemmeno la forza di firmare l’esposto, lo lascia anonimo. Non si salva il primario, che, stando alla registrazione e alle prime risultanze dell’inchiesta, viene chiamato per riparare all’errore della rottura della vena cava ma sembra più preoccupato dalla necessità di cancellare le tracce che da quella, sacrosanta, di evitare la morte della paziente. Non si salvano gli altri due chirurghi presenti, perché nessuno si sogna di sollevare il caso davanti agli inquirenti. E non si salva il direttore generale dell’ospedale, che compie come primo atto la sospensione di uno solo dei protagonisti, la voce narrante, il chirurgo che ha raccontato i fatti davanti a un registratore. E qual è il messaggio oggettivo di un provvedimento del genere, al di là delle intenzioni di chi lo emette? Viene punito chi ha parlato, chi ha rotto l’omertà. Solo in un secondo momento il manager sospenderà chi lo ha intercettato e infine gli altri professionisti del caso, ma questi ultimi solo dall’attività operatoria”.

E’ questo il peggio, il brutto, il pessimo della storia di Potenza. Accade più spesso di quanto non si voglia ammettere che un paziente anziano “muoia sotto i ferri”. Accade talvolta per diretta responsabilità od errore del chirurgo, accade ancor di più perché chirurgia e medicina non sono scienze esatte e perché nessun organismo è uguale all’altro e perché il rischio zero non esiste mai, figurarsi in sala operatoria. Ma il peggio, il brutto e il pessimo non è ritrovarsi in quella sala un chirurgo che sbaglia o un cuore, quello del paziente che inaspettatamente non regge. Il peggio, il brutto e il pessimo è ritrovarsi in sala operatoria un’intera équipe di “ominicchi”. Professionisti del fuggire la responsabilità, schivare, insabbiare, nascondere. Nessuno che abbia il coraggio civico e civile di riconoscere un errore, tutti pronti al richiamo dell’omertà, ciascuno impegnato a fregare il collega di camice. Camici neri perché dentro piccoli uomini, piccolissimi. Anche fossero grandi chirurghi.