Dal “Me ne frego” al “Me lo frego”: triste storia dal Msi al potere

di Riccardo Galli
Pubblicato il 19 Settembre 2012 - 15:41 OLTRE 6 MESI FA
(foto LaPresse)

ROMA – Erano camerati che, al bisogno e al momento, scandivano il nostalgico “Me ne frego” nelle manifestazioni della loro adolescenza, umana e politica. Sono poi diventati politici adulti, affamati di riconoscimento, rivincita, possesso: ora sono l’esercito, non più manipolo del “Me lo frego”. Dal “me ne frego” al “me frego tutto” è la parabola della destra ex Msi romana e laziale. In questi termini la racconta e racchiude uno di loro, coperto da un  tenue anonimato su La Stampa. Termini riassunti ed esaustivi: Franco Fiorito, quello delle otto case, i conti all’estero e dei soldi del Pdl che diventano suoi personali non è forse lo stesso che parlando con La Repubblica rivendica: “Ad Anagni so’ il Federale”?

Sono storie simili e diverse, ma comunque intrecciate, della destra romana e laziale che, una volta raggiunte le stanze del potere, ha cambiato slogan dimenticando il “ne” di fascista memoria. Quella destra capitolina che dal movimento sociale è arrivata alla poltrona di primo cittadino e governatore, quella destra che ha accompagnato Alemanno e Polverini come tribù e clan e poi si è insediata, anzi soprattutto “attavolata”, a quattro ganasce e senza neanche coltello, forchetta e tovagliolo.

Non si tratta in questo caso di un’analisi di parte, della critica della solita opposizione disfattista. Sono gli stessi dirigenti, quelli che hanno mantenuto una reputazione presentabile, a tirare sferzate e trovarsi di fronte ad un’analisi desolante di quella che è stata l’ascesa della loro parte politica. E ancor più critica è la base che quegli ex missini ha votato, che a quei novelli arraffoni ha fornito gli strumenti dell’ingrasso. “Quelli di sinistra – dicono oggi i ragazzi della destra irriducibile di Colle Oppio – sono stati abituati sin da ragazzi a gestire qualcosa, e per cui quando rubano lo fanno con stile, con contegno, e non radono al suolo come abbiamo fatto noi”.

Già, radere al suolo, la destra dura e pura che ha conquistato i posti di comando di Roma e del Lazio, in meno di un mandato è riuscita a dilapidare un patrimonio di voti e fiducia non indifferente. “Il sindaco non ha dato segnali di discontinuità reale” dice Andrea Augello, organizzatore della campagna elettorale sia di Alemanno sia della Polverini. Augello che sugli ex camerati va giù duro: “E’ andato tutto ben al di là di quello che potevamo temere, conoscendo i personaggi. È un capitolo che conclude l’illusione di riprendere in mano la situazione con strumenti ordinari. Ne servono di straordinari, bisogna sospendere il presepe di cariche nel partito, formare una squadra stretta come in campagna elettorale, cercare di giocarsi la partita nel poco tempo che rimane, se basterà”. Ovvio che non basterà. Non basterà perché è stato troppo e non basterà perché, come involontariamente ha rivelato lo stesso Augello, la destra laziale questa è e questa rimane. Una destra descritta così da Mattia Feltri su La Stampa:

“La semina era cominciata a inizio anni Novanta in una convivenza anche aspre fra destra sociale e destra protagonista, due anime di pretesa durezza e purezza, e fiorita nel più classico e produttivo associazionismo, nelle periferie, all’università. Poi è arrivata la vendemmia, e s’è alzato il gomito. Questo popolo emarginato, e quindi pervaso di rabbia e senso d’inferiorità, ha dato sfogo a un bulimia monumentale, ha trasformato le occasioni conviviali – cioè la sede dell’affare e della congiura, da Giulio Cesare fino a LaRussa-Gasparri-Matteoli che si vedevano dal Caccolaro per tramare contro Gianfranco Fini – in una crapula liberatoria. ‘Sembriamo quelli che uscivano dai campi di concentramento, digiuni da così tanto che s’abbuffavano fino a morire d’indigestione’, dice un anonimo ex An. E non è stato nemmeno uno show sfavillante, tutta roba minore, foto su Parioli Poket, ristoranti del viterbese. Non gli pareva vero – spifferano in comune – di ricevere telefonate di amici degli amici che caldeggiavano Andrea Carandini (‘E’ un piacere sapere che soffre’), uno da cui erano sempre stati snobbati. Un orizzonte semplicemente contenuto fra il senso di rivincita e lo champagne tracannato dalla scarpetta”.

Prova a chiamarsi fuori chi quella destra di governo ha contribuito a creare: Francesco Storace. “No! Mi rifiuto! Quelli non sono di destra! Col cavolo! Sono solo ladri! Sapete quanto ci soffro?”. Eppure fui proprio lui quello che per primo, tra gli ex missini, mise il naso nelle stanze del potere regionale, indicando la strada non solo ai suoi ex camerati, ma introducendo le “storiacce”, come quella dello spionaggio su Alessandra Mussolini.