Marco Callegaro suicida o suicidato? Militari Afghanistan, scura storia

di Riccardo Galli
Pubblicato il 29 Novembre 2016 - 14:39 OLTRE 6 MESI FA
Marco Callegaro suicida o suicidato? Militari Afghanistan, scura storia

Marco Callegaro suicida o suicidato? Militari Afghanistan, scura storia

ROMA – Marco Callegaro è un capitano delle Forze Armate italiane, ha 37 anni quando, nella notte tra il 24 e il 25 luglio del 2010 viene trovato morto nel suo ufficio di Kabul, Afghanistan. Ad ucciderlo è stato certamente un colpo di pistola, la sua di pistola. Ma il colpo chi lo ha esploso davvero, chi ha premuto davvero il grilletto? La morte del capitano viene catalogata in prima battuta come suicidio. Ma la famiglia al suicidio non ci crede, crede che il capitano sia stato “suicidato” da altra mano. E ha qualcosa di concreto, oltre al dolore, per credere in una simile ipotesi.

La famiglia ha il ricordo vivo di una telefonata con Marco di stanza in Afghanistan, una telefonata dove il capitano dice. “Pagano duemila quel che costa duecento”. Per capire occorre sapere che il capitano Callegaro all’epoca lavorava nella struttura di controllo, anche amministrativo, delle attività del nostro contingente in Afghanistan. Secondo la famiglia e, pare anche secondo una lettera che il capitano stesso avrebbe a suo tempo inviato alla Procura militare, era accaduto più volte che si fossero noleggiati mezzi blindati che blindati non erano a livello del loro costo di affitto.

Erano mezzi più leggeri di quanto c’era scritto nel contratto di noleggio, più leggeri, meno blindati e quindi meno sicuri contro le bombe artigianali da strada su cui i convogli saltano. I mezzi più leggeri erano pagati come quelli pesanti, quindi c’era una cresta e c’era una minor sicurezza per chi vi saliva sopra, soprattutto funzionari di governo e di Stato italiani.

Non è certo, non c’è prova che Callegaro ne abbia scritto alla Procura Militare prima di morire. Però è certo che dopo la sua morte la Procura Militare indaga e comunica una fine indagine che si conclude con la messa in stato di accusa (non condanna) di sei ufficiali delle Forze Armate italiane in Afghanistan. L’ipotesi di accisa è di “truffa militare”. Una fine indagine dunque che non condanna perché questo eventualmente spetta a un dibattito processuale e sentenza susseguente. Ma di certi non scagiona, anzi.

La storia, oscura storia di militari italiani in Afghanistan si sarebbe così dipanata: l’affare del noleggio fruttava ai noleggiatori afgani un sovra guadagno e il noleggiatore peraltro operava in regime di quasi monopolio. Inoltre sembra che avesse rapporti con quelli che le bombe (gli ied) le fabbricano e li piazzano. Si configura dunque un piccolo (o non tanto piccolo) ras locale che dagli italiani si faceva dare soldi per dar loro blindati tarocchi ma probabilmente girava parte del pizzo ai talebani garantendo che quei convogli non sarebbero stati attaccati.

Questo l’afgano. E gli ufficiali italiani? Ci sarebbero stati a pagare un pizzo all’afgano. Non è dato sapere se per stare sicuri o per guadagnarci una “fetta” anche loro. Su questo la Procura Militare non è competente, indaga solo per l’eventuale reato di aver sprecato soldi pubblici, la “truffa militare” e basta.

La storia diventa quindi ancora e molto più scura quando il capitano finisce i suoi giorni proprio a Kabul, proprio nel suo ufficio, per un colpo di pistola. Suicidio che nulla c’entra con la storia dei blindati? Suicidio a seguito dell’impotenza a farsi ascoltare sulla truffa dei blindati anzi a seguito di ostracismo ai suoi danni seguito alla denuncia? O ancora peggio un capitano delle Forze Armate italiane in Afghanistan “suicidato” da un ras locale di cui aveva disturbato gli affari con altri italiani in divisa?