26 febbraio salta taglio soldi ai partiti. Causa crisi, complici Pd, Fi, M5S

di Riccardo Galli
Pubblicato il 17 Febbraio 2014 - 12:41 OLTRE 6 MESI FA

parlamentoROMA – Matteo Renzi a palazzo Chigi ed Enrico Letta a spasso per Roma. Il cambio al vertice dell’esecutivo tiene banco da diversi giorni ma, tra le possibili conseguenze di questa staffetta, indierette quanto si vuole ma pur sempre conseguenze, ce ne sono alcune poco note ma non per questo di minore importanza. Tra queste, il possibile se non probabile addio al taglio del finanziamento pubblico ai partiti. Colpa del calendario certo, il decreto “scade” il prossimo 26 febbraio, ma anche della maggioranza, che ancora non l’ha convertito, e dell’opposizione che contestandolo ne allunga l’iter.

Tanto per far nomi e cognomi, colpa del Pd che di rinunciare subito sia pure soltanto a una parte dei soldi pubblici non ha gran voglia e colpa/responsabilità di Forza Italia che fa lo stesso gioco e colpa anche di M5S che al grido “diminuire non basta, via tutti i soldi ai partiti” lavora di fatto al risultato che i partiti i soldi li prenderanno tutti, quelli di prima.

Poco meno di dieci giorni, questa la finestra temporale a disposizione del decreto sul finanziamento pubblico ai partiti. Una norma, quella ferma in Parlamento, che secondo i critici è una misura troppo light, che taglia cioè in forma troppo blanda i fondi che i singoli schieramenti politici ottengono come rimborso. Light o non light che sia, è però l’unica riforma in merito al momento a disposizione. Una riforma che però, se non sarà convertita in legge entro il prossimo 26 febbraio, si risolverà in un nulla di fatto.

E il rischio che la tanto attesa riforma finisca in soffitta è più che concreto. Un rischio cui concorrono diverse concause, prime fra tutte il calendario e la crisi di governo. Come spiega Carlo Bertini su La Stampa infatti, i decreti legge possono essere convertiti in legge anche durante una crisi di governo come quella che l’Italia sta vivendo in questi giorni. Ma, durante la crisi, lo strumento della fiducia non esiste. E questo perché, non essendoci un governo, non può essere posta la questione di fiducia su nessun provvedimento, ivi compresi i decreti. E senza la fiducia viene meno la possibilità di contingentare i tempi e, ove necessario, porre un limite almeno temporale alle richieste delle opposizioni.

E qui entra in gioco la seconda concausa: l’ostruzionismo delle opposizioni. MoVimento5Stelle in testa, ma non solo, le opposizioni hanno sempre avuto un atteggiamento critico nella riforma pur definita da più parti indispensabile. Il loro ostruzionismo, cadendo la possibilità di apporre la fiducia, rischia ora però di far slittare la conversione del decreto oltre la data ultima disponibile. Una responsabilità figlia della buona fede, almeno secondo il punto di vista di chi la riforma non condivide, ma una responsabilità che, se non verrà superata e/o aggirata, si tradurrà in un lasciamo tutto com’è. Cosa che non dovrebbe essere l’obiettivo di nessuno, meno che meno dei penta stellati.

Ma responsabilità vanno trovate anche tra le fila della maggioranza. Quella maggioranza che sinora non ha trovato il tempo, la voglia e il modo di tradurre in legge il decreto. E questo nonostante la riforma del finanziamento pubblico ai partiti fosse stata indicata come uno degli obiettivi principali del governo Letta all’indomani del suo insediamento. Da allora sono trascorsi quasi dodici mesi eppure, della riforma, nessuna traccia, se non un decreto ancora da convertire e discutere. E, come sempre Bertini sostiene, “a voler essere maliziosi, si può anche pensar male: vista la mole di problemi che questo decreto provoca nelle strutture dei partiti, non è da escludere che l’eventuale ostruzionismo delle opposizioni sia visto come una manna dal cielo da tutti quelli che non potendolo dire saluterebbero un rinvio di questa legge come una benedizione”.

Altro spauracchio per i partiti, oltre la riforma che forse non si farà, una proposta di legge presentata da Walter Verini (Pd). Una proposta che punta a porre un freno alle affissioni abusive dei manifesti elettorali. Ad ogni tornata elettorale le città italiane si risvegliano puntualmente ricoperte di manifesti con le facce dei vari candidati. La proposta di Verini prevede multe salate per i responsabili, da 10 a 40 mila euro, e indica in modo chiaro e certo il metodo per risalire ai colpevoli dell’imbrattamento, cioè passando per i registri delle società che le affissioni fanno per arrivare ai committenti. Fin qui nulla di straordinario, il vero spauracchio per i partiti arriva dopo: la norma pensata da Verini dispone infatti che, in caso di morosità, l’ammontare delle multa venga scalata dai rimborsi che i partiti prendono per le elezioni. In questo modo tutti, seppur controvoglia, sarebbero costretti a pagare. E non c’è dubbio che, se questa norma diventasse realtà, le città italiane si risveglierebbero d’improvviso più pulite.