La parte di Giorgio Napolitano nella sconfitta di Renzi al Referendum costituzionale

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 11 Agosto 2017 - 05:00 OLTRE 6 MESI FA
La parte di Giorgio Napolitano nella sconfitta di Renzi al Referendum costituzionale

La parte di Giorgio Napolitano nella sconfitta di Renzi al Referendum costituzionale

Monta la polemica sull’operato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione dell’intervento militare in Libia nel 2011. Né si placherà presto, perché la critica nei confronti di questo Presidente ha accompagnato l’intero suo settennato nel quale egli, a giudizio di molti, si è atteggiato non da arbitro, come vuole la Costituzione, ma da giocatore in una delle squadre in campo, tanto che sulla stampa ricorre l’espressione “Re Giorgio”, proprio a sottolineare il suo protagonismo, in versione presidenzialista. Che ha raggiunto il suo acme in occasione della proposta di riforma costituzionale che egli si è intestato ed ha posto come obiettivo dell’agenda del Governo. Lo ha ripetutamente affermato, durante la campagna referendaria, l’allora Ministro per le riforme Maria Elena Boschi, insieme al Presidente del Consiglio Matteo Renzi, un altro che non ha saputo stare al suo posto, perché la riforma costituzionale è del Parlamento e non del Governo.

Tornando a Giorgio Napolitano, il suo impegno per le riforme del Governo Renzi è stato rilevante e continuo, fino all’ultimo giorno del suo secondo mandato terminato il 14 gennaio 2015, tanto da rivendicarne apertamente la paternità, con interventi, ripetuti e pressanti, non consueti ad un Capo dello Stato in una Repubblica parlamentare. Ed ha continuato, da Presidente emerito, a difendere la riforma durante la lunga campagna referendaria, come quando ha affermato che, se avesse prevalso il NO, avrebbe considerato il risultato una sua personale sconfitta, un disconoscimento della sua iniziativa (“col referendum, a rischio la mia eredità” Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2016), aggiungendo che in tal caso “per le riforme è finita: l’Italia apparirà come una democrazia incapace di riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi” (Corriere della Sera, 3 maggio 2016).

È così che la lettura “presidenzialista” che Napolitano ha impresso alla sua presidenza è stata al centro del dibattito politico e dell’attenzione dei costituzionalisti la maggior parte dei quali ha ritenuto che il Presidente fosse fuori della Costituzione. Un comportamento entrato nel mirino di Gustavo Zagrebelsky, ordinario di diritto costituzionale a Torino e Presidente emerito della Corte costituzionale, che, nell’accusare il Governo  di “arroganza”, ha ripetutamente sottolineato come “queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di chi, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione” (Loro diranno, noi diciamo, Laterza, Bari, 2016).

Se facciamo un passo indietro la responsabilità di Giorgio Napolitano è ancora maggiore, con riguardo alla legittimità del Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale dalla Consulta con la sentenza n. 1 del 2014 la quale ha anche delimitato i poteri delle Camere, consentendo loro, per un principio di continuità delle istituzioni, di restare in carica per attività di ordinaria amministrazione. Come si deduce dal riferimento, che si legge nella sentenza, a due disposizioni della Costituzione, l’art. 61, il quale prevede che “finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti” e l’art. 77, comma 2, sulla base del quale le Camere, “anche se sciolte” si riuniscono per esaminare decreti legge che devono essere convertiti entro sessanta giorni, pena la decadenza. Due riferimenti che delimitano fortemente l’ambito di operatività delle Camere.

Chi avrebbe dovuto presidiare il rispetto della sentenza se non Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica e pertanto garante della legalità costituzionale? Invece il Capo dello Stato non si è preoccupato di tenere sotto controllo il rispetto della sentenza ed anzi ha consentito al governo, non solamente di farsi promotore di una serie di disegni di legge, ma addirittura di promuovere la riforma della Costituzione, la legge fondamentale dello Stato. Insomma un Parlamento eletto sulla base di una legge incostituzionale che modifica la Costituzione. Ne scriveranno per anni nei libri di storia costituzionale.

Un Presidente sopra le righe, dunque, le cui iniziative gli italiani hanno dimostrato di non gradire respingendo con un voto senza appello, il 4 dicembre 2016, la riforma costituzionale che Matteo Renzi aveva proposto anche su sua indicazione. Quella riforma, quel testo – lo si legge nelle conclusione del documento dei fautori del SI – che “non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie, ma non ci sono scelte gravemente sbagliate”. Ed io mi sono sempre chiesto se sia possibile proporre una riforma radicale della Costituzione, la legge delle leggi, nella consapevolezza che il testo “non è privo di difetti”.