Lo  Stato, perché non funziona? colpa dei bassi quadri della burocrazia? è l’intera classe politica italiana

Lo  Stato, perché non funziona? colpa dei bassi quadri della burocrazia? non solo, colpevole è l'intera classe politica italiana, da Cavour a oggi

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 23 Ottobre 2022 - 09:49 OLTRE 6 MESI FA
Lo  Stato, perché non funziona? colpa dei bassi quadri della burocrazia? è l'intera classe politica italiana

Lo  Stato, perché non funziona? colpa dei bassi quadri della burocrazia? è l’intera classe politica italiana

Lo  Stato, perché non funziona? Molto dipende dai livelli inferiori della burocrazia, scrive Salvatore Sfrecola in questo articolo pubblicato sul suo blog, Un sogno italiano.

“I numeri due e tre sono spesso il fattore di successo di una compagine di governo”, ha scritto di recente Sabino Cassese. Il riferimento è ai collaboratori, agli staff, ai gabinetti dei quali i vincitori delle elezioni politiche sono “alla caccia”, già dalla sera del 25 settembre. Una ricerca “difficile perché alla guida dell’esecutivo va una forza politica che ha avuto scarsa consuetudine con il potere”.

Ricordo che il nostro sistema ministeriale “è ancora quello disegnato da Cavour nel 1853” e “gli strumenti del governo economico risalgono in gran parte agli anni trenta” del novecento.

Ma se è vero che “alla guida dell’esecutivo va una forza politica che ha avuto scarsa consuetudine con il potere”, la Lega ha avuto significative esperienze di governo. Forza Italia ha retto la Presidenza del Consiglio ed i più importanti ministeri per molti anni. Tuttavia, il tema è più ampio e coinvolge l’intera classe politica. Essa ci consegna un sistema amministrativo che sembra impossibile riformare. Nonostante la buona volontà del Presidente uscente, Mario Draghi, che nelle comunicazioni alle Camere di presentazione del suo governo aveva richiamato Cavour e le sue riforme. Sempre lui, sempre evocato quanto, nei fatti, ignorato.

Un nodo è costituito dalla ricerca dei collaboratori dei ministri, peraltro ancora ignoti, lo “head hunting”. Esso tradizionalmente viene esercitato ricorrendo a quelli che si definiscono “vivai di grandi commessi dello Stato” (i grand commis d’ètat), Consiglio di Stato e Ragioneria generale dello Stato. Sono istituzioni fondamentali che “governano la macchina delle leggi e quella della spesa”.

A Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, e nell’umbertino Palazzo delle finanze, dove è allocata la Ragioneria generale, hanno tradizionalmente “il polso” della gestione pubblica, quanto alle procedure ed alla loro efficacia ed ai tempi della spesa, preziosa per chi governa.

Infatti, si ricorda “il rispetto che Mussolini aveva per il Ragioniere generale Vito De Bellis” e l’importante ruolo svolto dal Ragioniere generale Vincenzo Milazzo, che fu Capo di gabinetto di Giulio Andreotti. Siamo sul finire degli anni ’70, quando uno studioso di Contabilità pubblica, Salvatore Buscema, aveva proposto che la Ragioneria Generale, per le sue funzioni di controllo contabile, fosse trasferita dal Ministero del tesoro, come si chiamava quello che oggi è il Ministero dell’economia e delle finanze, alla Presidenza del Consiglio. Andreotti, con spirito pratico, per non dover discutere quotidianamente con il Ministro del tesoro Pandolfi, sulle disponibilità di bilancio, portò a Palazzo Chigi Milazzo. E risolse il problema.

Ma Consiglio di Stato e Ragioneria Generale sono accusati di non dimostrarsi “all’altezza dei compiti richiesti ai grandi corpi dello Stato”, anche se dotati di “persone singolarmente molto capaci”. 

Attenzione ministri, dunque, a scegliere Capi di Gabinetto e Capi degli Uffici legislativi tra questi grand commis. Che da “custodi dello Stato, non si sono accorti che lo Stato mutava, e sono quindi divenuti i custodi dello Stato di ieri, rivelandosi una forza frenante”, ha  scritto Cassese.

E qui va fatta chiarezza sulle responsabilità. Perché l’accusa di non aver saputo “valorizzare le forze vive, che pure esistono nella macchina pubblica” andrebbe piuttosto indirizzata alla classe politica, di governo e sindacale. Essa non ha saputo imprimere nei pubblici dipendenti l’orgoglio di essere “al servizio esclusivo della Nazione”, come si esprime l’art. 98 della Costituzione.

Come accade negli Stati che hanno una antica tradizione amministrativa, in Francia e nel Regno Unito, ad esempio. Ma anche in Germania ed in Spagna dove i migliori vanno a servire lo Stato. Mentre se in Italia il pubblico impiego è stato considerato solo “un soggetto passivo, di cui assumere il comando o da tenere sotto controllo” è perché si è preferito allentare sistematicamente le regole della selezione a tutti i livelli. Fino a riempire gli uffici dirigenziali di soggetti “vicini” alla politica con quell’art. 19, comma 6, del d.P.R. n. 615 del 2001, che avrebbe dovuto favorire accessi qualificati, e non presenti negli apparati. Mentre ha favorito troppo spesso perfino quanti non avevano superato il concorso a dirigente.

È la classe politica e sindacale che ha svilito le selezioni all’ingresso in carriera e nel suo sviluppo, contestualmente limitando il tunr over al punto che, qualche anno fa un’indagine de Il Sole 24 Ore accertò che l’età media dei funzionari di alcuni ministeri era superiore ai cinquant’anni.

C’è poi l’accusa ai responsabili dei gabinetti ministeriali di “svolgere il compito di redattori di leggi nella maniera in cui scrivono sentenze, in modo casistico, pieno di riferimenti ad altre leggi, oscuro. Senza ascoltare la parola delle molte scuole di linguisti che hanno dedicato tanta attenzione all’ordine, alla chiarezza, alla intellegibilità delle leggi.

Hanno sempre proceduto per addizioni, senza fare attenzione ai labirintici percorsi che disegnavano per le amministrazioni e i cittadini, con più attenzione per il passato (il precedente) che per il futuro”. È vero. Ed è una accusa che accompagna il patrio legislatore da tempo, soprattutto dalla costituzione della Repubblica.

Un tempo le leggi erano scritte in un italiano chiaro, semplici, dirette a favorire il risultato, anziché a immettere nell’ordinamento cavilli che vorrebbero prevedere tutto ed evitare ogni deviazione.

Così favorendo in molti casi quel contenzioso amministrativo che poi, in altro contesto, si denuncia. Diciamo pure che questa mentalità vincolistica tendente “a porre limiti “ex ante” piuttosto che a prevedere controlli “ex post”, sui risultati” è conseguenza di un diffusa attitudine dei nostri concittadini ad aggirare le leggi. Come dimostrano gli accertamenti su procedimenti avviati sulla base di autocertificazioni false nella convinzione che il rischio dei controlli sia assolutamente minimo. E nullo quello delle sanzioni, dalle pensioni di invalidità al reddito di cittadinanza ottenuti da non aventi titolo.

Ma poi questi legisti chi avrebbe dovuto formarli? La Pubblica amministrazione e le magistrature, ovviamente, ma quale input è venuto dalle cattedre universitarie di diritto e dalle riviste giuridiche sulle quali si esercitano i colleghi e gli allievi del Professore Cassese? Il quale aggrava la dose delle censure spiegando che questi collaboratori dei ministri, “spinti da un generale orientamento vincolistico”, sono rimasti ancorati alla regola “di un diritto fondato sul precedente”, che certamente non ha consentito innovazioni “prospettiche”.

Quanto, poi, alla Ragioneria Generale l’accusa è, se possibile, ancora più grave. Per Cassese essa “fa controlli ragionieristici” e “non riesce a fare analisi costi-benefici”. Limitandosi ad essere il guardiano di conti privi di vita (“fondato su parametri e calcoli sconosciuti”) perché escluderebbero “il calcolo economico nello Stato” di cui sarebbe dimostrazione la clausola di “invarianza finanziaria” che Cassese ritiene “ipocrita”.

Certamente lo è per accontentare i politici che gridano quotidianamente al fardello insopportabile del debito pubblico ma non tollerano che il Ragioniere generale dica loro che quelle somme, che intendono stanziare per favorire questa a quella categoria, sia pure generica, di elettori se non clientes, non possa essere approvata per mancanza di adeguata copertura finanziaria ex art. 81 Cost.. Avrà letto il Professore gli improperi che i politici riservano ai ragionieri dello Stato quando fanno i… ragionieri.

La conclusione è che “Consiglio di Stato e Ragioneria generale dello Stato, se vogliono — come tutti auspichiamo — continuare a svolgere il prezioso ruolo che hanno svolto nel passato, debbono cogliere i mutamenti intervenuti nella struttura dei poteri pubblici. E nella domanda sociale rivolta allo Stato e dotarsi della ‘expertise’ tecnica necessaria”. Cioè di qualche economista, matematico e filosofo per “far sentire, in questi grandi corpi, la voce di culture diverse”. Inutile dire che vi sono, soprattutto al Consiglio di Stato, grazie alle nomine “governative”.

C’è poi l tema della “casta” dei gabinettisti in servizio permanente effettivo che passano da un ministero all’altro.  Non sarebbe niente di male se non passassero anche da un ministro all’altro, così dimostrando alla struttura amministrativa non già di essere “indipendenti”, ma di essere molto spesso inadeguati ad interpretare le ansie ideologiche e le aspettative politiche del ministro del quale sono la “voce” nell’amministrazione.

Una casta che si alimenta per cooptazione, in parte eterodiretta da chi “consiglia” e qualche volta “impone” un determinato Capo di Gabinetto ad un ministro che viene così rassicurato che la scelta di quel personaggio è la migliore possibile. Gli darà prestigio e favorirà la trasformazione delle sue idee e dei programmi di governo in effettiva realizzazione.

Insomma, se è vero che, per un antico adagio di uso corrente, “il pesce puzza dalla testa” la conclusione vera è che “chi (non) fa funzionare lo Stato” va ricercato, in primo luogo, nella classe politica la quale non è capace di pretendere che il dettato normativo sia sempre “semplice e sobrio”, come Piero Calamandrei, repubblicanissimo, riconosceva allo Statuto Albertino.

Come si scrivevano un tempo le leggi per rendere più facile la vita “a cittadini e amministratori”. Come avviene oltralpe o nel Regno Unito. Dove la legge sugli appalti è la traduzione in inglese della direttiva europea. Mentre in Italia il relativo “Codice” è un volume di oltre 200 articoli, più volte modificati, e di molte centinaia di commi, irti di cavilli. Che nessun politico è stato capace, al momento opportuno, di restituire al mittente, sottolineando con la matita blu l’evidente mancanza di semplicità e sobrietà.