Taglio parlamentari (bene) e vincolo di mandato (male). Le riforme al vaglio di M5s

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 12 Dicembre 2018 - 06:33 OLTRE 6 MESI FA
Taglio parlamentari (bene) e vincolo di mandato (male). Le riforme al vaglio di M5s

Taglio parlamentari (bene) e vincolo di mandato (male). Le riforme al vaglio di M5s

ROMA – Taglio del numero dei parlamentari e vincolo di mandato: sono le riforme della Costituzione che Stefano Buffagni, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega agli Affari regionali e alle Autonomie, annuncia a Federico Novella del quotidiano La Verità. Sullo stesso giornale, Salvatore Sfrecola commenta.

Che il numero dei nostri parlamentari sia eccessivo è opinione ampiamente condivisa. Basti pensare che negli Stati Uniti, con una popolazione di oltre 300 milioni di abitanti, i senatori sono 100, due per ogni stato, indipendentemente dalla popolazione, ed i componenti della Camera dei rappresentanti 435, a fronte dei nostri 630 deputati. La proposta di revisione costituzionale targata Renzi-Boschi, che portava a 100 i senatori (oggi sono 315), non più elettivi, manteneva 630 deputati, evidentemente per non correre il rischio che votassero contro nel corso dell’iter parlamentare della riforma,  era squilibrata tra l’altro perché aboliva un bicameralismo più virtuoso di quanto comunemente si crede e che negli Usa. è un pilastro della democrazia parlamentare. Eppure si disse allora che Barack Obama aveva lodato la proposta italiana. Forse non gli era stata spiegata bene o forse era carente il traduttore. Sta di fatto che gli italiani si sono resi conto che quella non era una cosa seria, tra l’altro per un sistema di formazione delle leggi inutilmente complicato, ed hanno votato in massa “NO”.

L’ipotesi di introdurre il vincolo di mandato, espressamente escluso dalla nostra Costituzione la quale, all’art. 67, stabilisce che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, che riproduce sostanzialmente l’art. 41 dello Statuto Albertino secondo il quale “i deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori”, torna ad affacciarsi nel dibattito politico, soprattutto ad iniziativa del M5S. E di quanti, va detto, ritengono indecorosa l’immagine della transumanza dei parlamentari da un gruppo all’altro. Nell’ultima legislatura sono stati centinaia a cambiare casacca, alcuni più volte. In un caso ben sette volte.

Naturalmente chi si fa promotore del vincolo di mandato, nel senso che “se cambi lasci il Parlamento” non è mosso solamente dalla difesa della fedeltà al partito e all’elettorato, ma vuole evitare cambi di schieramento e, quindi, intende mantenere il controllo del gruppo parlamentare. Ciò che ha una sua giustificazione solamente perché il nostro sistema elettorale si è snaturato  in assenza di un voto di preferenza, di fatto abolito (ma lo ritroveremo nelle elezioni europee) con la scusa che favoriva inciuci e intrallazzi vari alla ricerca del consenso.

Tuttavia il mandato imperativo che vogliono i grillini è sicuramente espressione di una mentalità antiparlamentare, del resto figlia della cosiddetta “democrazia diretta” che non prevede rappresentanti perché, secondo Jean-Jacques Rousseau, la sovranità consiste nella “volontà generale, e la volontà generale non si rappresenta”. A lui si ispira il M5S, al punto che Rousseau è il nome della piattaforma informatica attraverso la quale i grillini propongono, discutono e decidono. È il “populismo digitale” (come titola il suo libro Alessandro Dal Lago) che attua una partecipazione popolare attraverso Internet, una sorta di Agorà telematica, che sostituisce la piazza di Atene e Sparta, dove comunque in pochi decidevano sulla vita della polis.

Ma siccome la democrazia in un grande paese può essere “diretta” ma non troppo, per cui i rappresentanti ci devono pur essere, ecco che essi devono essere legati al partito che li ha fatti eleggere. Non possono cambiare squadra. Ricorda un po’ lo schema giuridico del mandato che aveva caratterizzato nel medioevo i primi parlamenti. Dove chi portava al sovrano le esigenze dei rappresentati era vincolato ad istruzioni dettagliate sulle singole questioni in discussione (cahiers de doléance). Pertanto il rappresentante che non adempiva con cura il suo mandato poteva essere revocato. Tutt’altra cosa la rappresentanza politica nelle democrazie liberali nelle quali non è possibile definire a priori l’ambito di attività del rappresentante il quale agisce con assoluta autonomia, tenuto solamente ad interpretare “l’interesse reale del paese”, come spiega James Madison nel Federalist. Anche nella costituzione francese del 1791 i rappresentanti non saranno tali per un dipartimento particolare ma per l’intera nazione. Alcuni anni prima, nel 1774, Edmund Burke, celebre pensatore conservatore cui è dedicato un bel volume di Russell Kirk appena pubblicato (Il pensiero conservatore da Burke a Eliot, a cura di Francesco Giubilei), in un discorso agli elettori di Bristol, aveva già affermato con chiarezza che “il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di interessi diversi… è invece un’assemblea deliberativa di una nazione con un solo interesse, quello della comunità”, dove a guidare le decisione dovrebbe essere “il bene comune che nasce dalla ragione generale”.

La proposta di introdurre il vincolo imperativo è, dunque, in netto contrasto con la cultura costituzionale italiana ed occidentale e comunque tende a ricondurre le scelte politiche nelle segrete stanze della leadership di partito. Oggi infatti l’elezione avviene sulla base dei consensi ottenuti dalla lista ed è assicurata dalla posizione che nella lista è assegnata dal capo del partito, con la conseguenza che l’eletto è dipendente dal vertice politico e non più dal consenso popolare, sicché il cambio di casacca, non consegue ad una scelta del parlamentare che ritiene in tal modo di essere coerente con la volontà del suo elettorato ma ad interessi personali. Lo stesso vale per i collegi uninominali nei quali la possibilità di elezione discende dal consenso che riscuote il partito molto più che dalla capacità del candidato di convincere. Quindi è ancora una scelta del vertice.

Per comprendere questa situazione conviene fare un salto a Londra, nel Regno Unito, che già Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu aveva preso come esempio per il suo Esprit des Lois, lo spirito delle leggi, fondamentale trattato sui diritti politici. In quel paese che, non a caso si ritiene la culla della democrazia parlamentare, il candidato nel collegio che gli è assegnato ha un rapporto diretto con l’elettorato. Va porta a porta per cercare di convincere gli elettori. Bussa ad ogni porta, anche a quella di chi sa che non lo voterà, perché oltre Manica l’elettore non apprezza chi non è capace di confrontarsi con l’elettorato avverso. “La mia forza – mi ha detto anni addietro un candidato liberale – è il radicamento sul territorio. Il partito non mi sposterebbe mai dal mio collegio perché sa che se lo facesse io potrei presentarmi ugualmente ed essere eletto”. In Italia i partiti non hanno mai voluto che i parlamentari si radicassero sul territorio. Devono essere le segreterie a scegliere candidato, lista o collegio. In questo modo gli eletti non hanno autonomia e autorevolezza. Per questo a Londra contano i gruppi parlamentari, non le segreterie di partito, come sa bene Theresa May, primo ministro di Sua Maestà e leader dei conservatori, che in questi giorni molto è preoccupata per gli umori dei parlamentari del suo partito tra i quali serpeggia lo scontento per la Brexit e per l’accordo siglato a Bruxelles.