Fiat in Serbia, Berlusconi, Marchionne e la presa in giro di un inutile “tavolo”: sindacati, governo, partiti intervengono in ritardo di un anno

di Marco Benedetto
Pubblicato il 25 Luglio 2010 - 21:36| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Berlusconi e Marchionne: bei tempi quando mi rispettavi e venivi con la cravatta

Per cent’anni, la Fiat è stata un mito e un simbolo. Era un mito di solidità e di sicurezza, un posto in Fiat era l’approdo di una vita. Era un simbolo del rapporto di amore e odio che legava all’azienda i suoi operai.

La Fiat la chiamavano “la feroce”, per i cattivi c’era il reparto zero, ma per le migliaia di operai che lavoravano a Mirafiori, al Lingotto e negli altri stabilimenti, c’era quel paternalismo Vallettiano che offriva ai dipendenti un company welfare che nessuno Stato ha mai dato.

Erano gli anni ’50, i tempi della Fiat conglomerata, che produceva di tutto, dalle auto agli aerei, “terra mare cielo”.

Nei trent’anni successivi, fra i ’50 e gli ’80, la Fiat ha conosciuto l’apogeo della sua potenza e il suo declino, il massacro del terrorismo e il riscatto che trasformò l’Italia.

Nella fase di crescita e di espansione, la Fiat fu accompagnata dalla benevolenza americana, dal Piano Marshall, dal sostegno del Governo italiano. Nella fase di declino la Fiat si è trovata sola.

Il sostegno si attenuò, per quell’amore e odio che univano la fabbrica ai suoi lavoratori ma anche ai grandi partiti politici popolari del dopoguerra, non solo il Pci, come naturale, ma la Dc, che aveva ereditato l’ambiguo rapporto della Fiat con il partito fascista e Mussolini.

Ci furono gravi errori manageriali, di strategia e di gestione. Gli uomini che avevano portato, anche con eroismo, la Fiat fuori dagli spasimi della guerra e del dopoguerra, non furono in grado di combattere nel nuovo mercato. La Fiat non aveva sviluppato gli anticorpi della capacità concorrenziale.

Berlusconi e Marchionne: non porti la cravatta, vai dai serbi, ti strozzo. Ma va' là...

Impreparata al nuovo mercato, impreparata agli scossoni della trasformazione sociale e della colossale redistribuzione del reddito che ci ha portato al benessere diffuso di oggi ma che sconvolse l’Italia e soprattutto il Nord e soprattutto Torino.

L’Italia affrontò una mutazione definita “biblica” come aveva affrontato le altre grandi prove precedenti della sua storia recente: dall’invasione piemontese della Lombardia senza carte topografiche alla seconda guerra mondiale con le scarpe di cartone per invadere la Russia.

Per i politici, per Roma non ancora ladrona ma sempre inadeguata, l’industria era una grande scocciatura, una galassia estranea, misteriosa. Per padroni e dirigenti, l’attenzione della gestione industriale si concentrò sul solo problema del controllo della forza lavoro, che fece così dimenticare tutto il resto, diventando anzi un comodo alibi.

La violenza in fabbrica non era solo l’acuto del terrorismo, era un fenomeno diffuso, con cui la sinistra non ha fatto ancora bene i conti, e non era esclusiva della Fiat: Guido Rossa lavorava all’Italsider di Genova.

C’era una violenza diffusa e palpabile, la sentivi nella voce rancorosa della centralinista dei taxi di Milano, nella malacreanza che sconfinava negli insulti delle hostess dell’Alitalia, nei cortei che scandivano la nostra vita, nel progressivo degrado della scuola. Federico Fellini ci fece un film, “Prova d’orchestra”, per dire che forse era ora di finirla.

Ma la Fiat divenne il simbolo di quella stagione, mentre il mercato dell’auto si apriva sempre più alle case straniere e i prodotti stranieri piacevano sempre più di quelli italiani: meglio progettati, meglio fatti, meglio venduti.

Due fatti segnarono la svolta della Fiat, che trascinò il successivo ripristino della normalità in Italia (scuola esclusa): il licenziamento di 61 lavoratori di Mirafiori, in odore di vicinanza al terrorismo (e per alcuni qualcosa di più); la minaccia di 10 mila licenziamenti nell’auto Fiat, per crisi di produzione.

La Fiat scoprì di essere totalmente sola. Umberto Agnelli sostenne da solo il peso delle scelte, pagò caro, di persona. I presidenti del Consiglio democristiani dell’epoca inorridirono quando Agnelli li informò, a cose quasi fatte. Quelli non volevano grane, ne avevano già troppe, e rifiutavano la nozione che la Fiat fosse sull’orlo del baratro.

I comunisti avevano cominciato a prendere coscienza della situazione Fiat. La componente culturale industriale era forte nel partito dell’epoca, c’erano ancora dirigenti che venivano dalla fabbrica. I comunisti sapevano che non era solo questione di cattivi operai, che il problema era più complesso e toccava un po’ tutti, ma anche la gestione della forza lavoro andava un pochino riconsiderata.