Il terzo mondo dimenticato in via dei Villini, nel centro di Roma

di Stefano Corradino
Pubblicato il 22 Dicembre 2010 - 09:44 OLTRE 6 MESI FA

Stefano Corradino

Se percorri via dei Villini, quella che costeggia piazza Fiume puoi dire che è una strada di tutto rispetto. C’è un bel verde, edifici nuovi e palazzi antichi ristrutturati. C’è un’ambasciata, quella d’Ungheria. Di fronte quella che fino a pochi anni fa era sede della diplomazia somala in Italia, un prestigioso villino dei primi del novecento. Dal patio entravano e uscivano auto blu. Quando però varchiamo il cortile d’ingresso dell’edificio l’unica automobile che ci si presenta davanti non ha i vetri, la carrozzeria è ammaccata, la tappezzeria è divelta, le ruote a terra.

All’interno stracci e indumenti che sembrano essere lì dal giorno di fabbricazione. Ci aspettano ai piedi delle scale d’ingresso una decina di uomini di colore. Sono i giovani somali rifugiati. Circa duecento. Fuggiti dal loro Paese natale dove rischiavano la vita. Non parlano italiano. Ci guardano, curiosi e perplessi. E’ aiuto e sostegno quello che cercano. Morale e materiale. Lo dicono gli sguardi smarriti, ma non rassegnati. Dignitosi. Uno di loro comincia a parlare nella sua lingua. Shukri Said traduce. Lei dirige l’associazione “Migrare”. E’ somala, come loro. E loro si fidano. Non per la comune provenienza ma perché sentono che è una di loro, perchè lei vive empaticamente la loro condizione, la povertà, la privazione dei diritti, la sofferenza umana. Una stanza come quella che ci troviamo davanti molti di noi l’hanno vista solo nei film o nei documentari. Quelli sul terzo mondo. Quelli che ipocritamente vengono chiamati paesi in via di sviluppo ma che questa via non l’hanno nemmeno imboccata.

E il terzo mondo è qui. Terzo e tutt’altro che terso. Uno stanzone che un tempo era un garage. Praticamente a cielo aperto. Dentro, due file di materassi e sacchi a pelo. Gettati a terra. Sporchi, luridi, nauseanti. Dovrebbero starci in quattro con gli armadi, e i vestiti, e la biancheria pulita. Ci vivono, ci dormono dieci volte tanti. Quaranta ed oltre. Gli armadi sono i fili di nylon precari sui quali pendono indumenti. Camicie, pantaloni, giacche. Ammassati uno sopra l’altro. Strusciano a terra, troppo pesanti per quel cordoncino sottile. Ma è solo la prima tappa del nostro viaggio nell’inferno. Come Caronte che porta sulla sua barca le anime dei morti verso l’Ade noi siamo condotti tra scale buie e fatiscenti.

Oggi la temperatura esterna è gradevole, ma le stanze, in questo palazzo a due passi dalla “Rinascente” sono “rimorenti”, gelide. Entriamo. Sono tutte vuote ma sentiamo un brusio poco distante. Seguiamo le voci e quando entriamo nell’ennesima irreale camera vediamo una decina di ragazzi stretti intorno a un fuoco. Hanno acceso degli arbusti in terra per riscaldarsi e sopra c’è una pentola grande. Vogliono scaldare l’acqua per cucinarsi un piatto di pasta. Ma i legnetti secchi non ardono. Uno di loro ha in mano una bottiglia di alcool etilico. La orienta in basso e spruzza il liquido infiammabile che fa ardere la fiamma e cosparge il pavimento. “Attenti”, gli fa notare qualcuno dei visitatori attoniti, “qui rischiate che salta tutto”. “Peggio di così? Forse sarebbe la soluzione più indolore” ribatte laconicamente uno di questi duecento uomini. Rifugiati senza rifugio, rifiutati tra i rifiuti. A Natale, nel centro di Roma.

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