ROMA – Il raggiungimento di elevati livelli di istruzione può fornire maggiori opportunità di occupazione, percorsi lavorativi più dinamici e, attraverso il lavoro, consentire l’accesso alla mobilità sociale verso l’alto. Tuttavia, se le scelte di iniziare un percorso scolastico invece di un altro, gli anni dedicati a percorrerlo e gli esiti al termine di esso dipendono fortemente dall’origine sociale, l’istruzione non riesce a svolgere la sua funzione di promozione sociale e le disuguaglianze tra classi tendono a riprodursi e a permanere nel tempo.
Dal rapporto Istat 2012 emerge ad esempio che: 1) Il 55,4% dei figli della classe operaia ottengono un diploma di scuola secondaria superiore o universitario, contro l’89,1% tra i figli della classe sociale più agiata. 2) Rispetto al raggiungimento di un titolo universitario, la vera selezione avviene all’ingresso: si iscrive all’università il 55,8% dei figli della borghesia della generazione del 1970-1979, contro appena il 14,1% di quelli della classe operaia. 3) Il titolo di studio dei genitori è elemento fondamentale nel percorso di istruzione dei figli. 4) Nelle generazioni più giovani, l’elemento di discriminazione fondamentale tra classi sociali nel conseguimento del titolo di scuola secondaria superiore non è tanto la differenza nelle iscrizioni, quanto quella relativa agli abbandoni prematuri, i quali si mantengono a livelli molto elevati, pur se in diminuzione nel corso del tempo. 5) Molto meno selettivo rispetto a quanto visto per la media superiore è l’abbandono prematuro degli studi universitari, oscillando tra il 16,1% dei figli della borghesia nati nel 1970-1979 e il 22,7% dei figli della classe operaia (in aumento nel tempo).
Eppure si parla ancora in questi giorni di aumentare le tasse universitarie. Ma aumentarle aumenterebbe solo il costo per chi frequenta con la conseguenza si rendere ancora più difficile il difficilissimo tentativo di attrarre i talenti meno abbienti. Vediamo il perché.
Immaginiamo, per assurdo, che per metter su un’università si spenda 50 euro, magari per i professori. Per esempio, devo pagare 2 insegnanti (25 euro l’uno), ognuno dei quali insegna rispettivamente ad un solo studente: Paolo e Giovanna. Questo 50 è anche quanto vale l’università in totale. Diciamo cioè che il valore per Paolo e Giovanna di seguire i 2 corsi attivati è di 25 euro per ciascuno di loro.
Altra ipotesi: i 50 euro per sostenere la spesa dell’università li otteniamo dalla fiscalità generale e non da rette universitarie agli studenti. Così la finanziano anche quelli che non vanno all’università. Magari i meno abbienti, e cioè né Paolo né Giovanna, ma Francesco, il più povero.
Come si vede dallo schema a sinistra, Giovanna effettivamente paga 15 euro di tasse (segnato in rosso) ma riceve 25 di valore (verde): su un reddito di 50 euro, il suo guadagno di 10 equivale ad una tassa negativa (un sussidio) del 20% del suo reddito. Francesco invece, che lavora, paga con le sue tasse lo studio di Paolo e Giovanna.
I dati del rapporto Istat confermano che l’Università è una tassa sui poveri a favore dei ricchi. Ci si potrebbe invece muovere verso un mondo dove si tassa chi segue l’università, modello anglosassone.
Seguendo questo schema (come tabella a destra) ogni studente frequentante paga la stessa tassa. Dalle tasse si ottengono sempre 50 euro (stavolta in forma di rette universitarie) per finanziare gli insegnanti. Ma è come se nessuno le pagasse: né Francesco, nè Giovanna, nè Paolo che ricevono in valore quanto pagano di tasse.
Lo schema è irrealistico ma mostra bene la regressività dell’attuale schema basato in gran parte sulla tassazione generale, e il fatto che lo schema di tassazione non risolve il problema chiave e cioè che l’università grava anche sulle spalle di Francesco, che non va all’Università, in nessuno dei due casi.
Il problema di Francesco, anche alla luce dei dati Istat, è decisamente più rilevante rispetto a quello di tassare i fuori corso (appena inserito nei provvedimenti governativi), questione risolvibile senza tanto fracasso obbligando l’Università a laureare in 3 anni, come se si andasse a scuola.
Anche perché portare – come ci chiede Europa 2020 – i nostri laureati dal 18% al 40% (ultimi o quasi nell’Unione europea) nel giro di pochi anni certamente richiede di agire sulla leva dei meno abbienti che non vogliono iscriversi. Certo non si può obbligarli perché lo dice l’Europa: nell’esempio fatto sopra Francesco non va all’Università perché non ne vede i benefici. O perché non ne percepisce i vantaggi o perché i costi (rinuncia al salario) potrebbero essere troppo alti.
E non ne vede i vantaggi in parte perché gli extra-salari derivanti dall’andare all’Università in Italia non sono così alti (meno del 10%, vedi sotto), sia perché i rendimenti non monetari ma sociali (imparare ad interagire con altri, fumare di meno, ecc.) non sono percepiti come significativi, e infine perché i genitoric che non hanno studiato all’Università, non vedendone i vantaggi, non spingono i loro giovani verso una scelta ritenuta anomala.
Ma ognuna di queste problematiche ha una sua soluzione:
– i salari bassi post Università sono anche figli di una economia che stenta a crescere, che innova poco anche perché non la si lascia innovare (oneri burocratici in primis)
– mentre il resto necessita un approccio più proattivo che potremmo adottare per far percepire ai più bravi e meno abbienti i vantaggi di una istruzione avanzata o tecnica. Come dice Paola Giuliano, a parità di talento (voto alle medie) dei ragazzi, un padre con uno scarso livello d’istruzione riduce di oltre il 50% la probabilità che il figlio frequenti il liceo, anche se questo pregiudica le chance di successo e di completamento degli studi universitari, legate al tipo di istruzione superiore conseguita: “Una volta che ragazzi di talento di famiglie non abbienti scelgono la scuola superiore “giusta”, il liceo, le loro possibilità di terminare l’Università sono poco diverse da quelle di ragazzi provenienti da famiglie abbienti”. Per risolvere questo “circolo vizioso dell’istruzione” è necessario dunque agire prima: per esempio, una capillare campagna di informazione, prima del termine della scuola dell’obbligo, sul valore dell’istruzione.
Aumentare le tasse universitarie dunque aumenta il costo per chi frequenta, non un dramma per i più ricchi, ma rende ancora più difficile il difficilissimo tentativo di attrarre i talenti meno abbienti. Quando si comincia allora a lavorare per rimuovere finalmente le barriere alla mobilità sociale dei giovani? E’ alla nostra portata. Altrimenti mettiamo fuori corso la politica che non ci prova nemmeno.
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