Finanziamento pubblico ai giornali: poche risorse ma da distribuire meglio

di Vincenzo Vita
Pubblicato il 25 Settembre 2014 - 07:55 OLTRE 6 MESI FA
Finanziamento pubblico ai giornali: poche risorse ma da distribuire meglio

Foto d’archivio

ROMA – Vincenzo Vita sul Manifesto del 24 settembre ha scritto questo articolo dal titolo “Editoria al fondo”:

Gio­vedì mat­tina alla Camera dei depu­tati si terrà una con­fe­renza stampa sulla crisi (finale?) dell’editoria pro­mossa unitariamente da: Alleanza delle coo­pe­ra­tive ita­liane della comu­ni­ca­zione, Fede­ra­zione della stampa, Fede­ra­zione set­ti­ma­nali cat­to­lici, Fede­ra­zione dei liberi edi­tori, Asso­cia­zione stampa online, Unione stampa perio­dica, Cgil, Arti­colo 21 e Media­coop.

Vuole essere un appello al Governo e al Par­la­mento per sal­vare il plu­ra­li­smo dell’informazione nazio­nale e locale. Mentre, infatti, si ipo­tiz­zano Stati gene­rali del set­tore, riforme più o meno orga­ni­che, qua­ranta testate del mondo cooperativo e non pro­fit hanno già chiuso i bat­tenti e altri mille pro­fes­sio­ni­sti hanno perso il posto di lavoro.

Innu­me­re­voli volte è stato denun­ciato un simile rischio, dopo i tagli costanti subiti dal Fondo per l’editoria, pur rivi­sto negli anni recenti con un’opera di mora­liz­za­zione dei cri­teri di attri­bu­zione dei contributi.

Si è pas­sati da 506 milioni di euro del 2007 agli attuali 140, com­pren­sivi del debito con le Poste e della quota pre­vi­sta per le con­ven­zioni della Rai (non poteva il Governo tagliare 100 e non 150 milioni all’azienda pubblica?).

Il fondo pubblico per l’editoria è passato dai 506 milioni del 2007 ai 50 del 2014.

Quindi, ai gior­nali vanno solo 50 milioni, che diver­ranno sì e no 40 il pros­simo anno. Per arri­vare alla linea di galleggiamento ne man­cano una set­tan­tina. Men­tre i cosid­detti «Over the top» (Goo­gle e i suoi grandi fra­telli) prosperano, la carta stam­pata muore. Il caso recente de l’Unità e quello annun­ciato di Europa sono le punte dell’iceberg di una deser­ti­fi­ca­zione allar­mante. La con­cla­mata tran­si­zione alla dif­fu­sione on line e all’era digi­tale ha effetti «collaterali» mostruosi: un cimi­tero piut­to­sto che un pranzo di gala.

Ecco, si chiede di vivere, di imma­gi­nare il defi­ni­tivo pas­sag­gio alla sta­gione della rete come un per­corso da gover­nare con sapienza; non come una resa incon­di­zio­nata agli «spi­riti ani­mali» del capi­ta­li­smo. Quest’ultimo –prima che sia troppo tardi, ci ammo­ni­sce Tho­mas Piketty nel suo straor­di­na­rio recente volume — va con­trol­lato demo­cra­ti­ca­mente. Qui sta il punto. Se si dovesse veri­fi­care la moria delle testate meno inse­rite nel «libero» mer­cato, sarebbe tra­fitta nelle fon­da­menta la costru­zione dello Stato moderno. Altro che innovazione.

Senza una plu­ra­lità di voci e di espres­sioni cul­tu­rali vin­ce­rebbe un ter­ri­bile pen­siero unico, degno del pas­sato più oscuro.

Davanti a simile pre­ci­pi­ta­zione della crisi è dove­roso un imme­diato inter­vento nor­ma­tivo, in attesa della riforma. Serve una nor­ma­tiva aggior­nata del sistema dei media, figlia di una sta­gione di sog­ge­zione alla tele­vi­sione del con­flitto di interessi.

Che senso ha spez­zet­tare l’iniziativa, inter­ve­nendo – ad esem­pio — sul canone della Rai con un decreto legge (così parebbe, almeno), lasciando in ago­nia decine e decine di quo­ti­diani e perio­dici?

Si riveda una volta per tutte la natura Fondo dell’editoria, tra­sfor­man­dolo in un vero e pro­prio Fondo per la libertà di infor­ma­zione, in grado di evi­tare la caduta agli inferi delle com­po­nenti fuori dal coro.

Dove si tro­vano le risorse? Si guar­dino i bilanci del set­tore inte­grato delle comu­ni­ca­zioni e si vedrà che non è così difficile.

E poi, un inter­vento dello stato –magari a ter­mine– rimane essen­ziale per con­tri­buire al rilan­cio dell’informazione. O si pre­fe­ri­sce un’Italia via via mar­gi­na­liz­zata e senza cul­tura? Let­trici e let­tori stanno dimi­nuendo pesan­te­mente e un giorno dopo l’altro – come can­tava Luigi Tenco — l’editoria esce di scena, senza nep­pure lacrime e pen­ti­menti da parte di chi dovrebbe par­lare, ma non dice e non decide.