Salva Sallusti e internet: come Cina, Iran, Corea del Nord

di Vincenzo Vita
Pubblicato il 27 Ottobre 2012 - 16:42 OLTRE 6 MESI FA

Sulla legge detta salva Sallusti, a firma dei senatori Vannino Chiti e Maurizio Gasparri, Vincenzo Vita ha pronunciato nell’aula del Senato questo appassionato intervento, anzi orazione. Questo articolo è adattato dal testo stenografico.

Il dibattito è partito come un’opera nella quale il baritono fa una stecca all’inizio del primo atto. La stecca si riverbera sull’insieme dell’opera fino alla fine del terzo atto, compromettendo la felicità delle esecuzioni.

Un tema di tale delicatezza, infattiva avanti di legislatura in legislatura e piomba alla fine della legislatura corrente sull’onda di un’emergenza particolarissima. Personalmente, se fosse stato in mio potere intervenire, se avessi avuto lo scettro di Frankenstein, lo dico con umiltà, avrei tolto di mezzo il carcere fermandomi a quel punto, come accade in Gran Bretagna e in altri Paesi: cioè avrei eliminato questa conseguenza della diffamazione che resta comunque un reato molto grave, e avrei riportato il tutto in sede civile con una procedura abbreviata. In tal modo, avremmo forse avuto una soluzione più moderna del problema.

Tuttavia, così è andata e allora vorrei sollevare tre questioni che, così come sono nel testo emerso dalla Commissione, a mio modo di vedere non vanno bene e inficiano profondamente il testo stesso.

In primo luogo vorrei segnalare la gravità della pena pecuniaria: le cifre sono cifre e la quantità fa la qualità. In commissione al Senato ho provato a convincere gli altri senatori che arrivare a 100.000 euro, e sottolineo 100.000 euro, significa compromettere gran parte dell’attività di giornali, di quotidiani e di periodici e, quindi, di professionisti molto spesso free lance o con contratti difficili.

Quante volte è accaduto che una condanna, poi magari annullata in secondo grado, abbia comportato vere e proprie tragedie per il gioco delle provvisionali?

Cito un caso di queste ultime ore come esempio: Luca Fazio, un giornalista de «Il Manifesto». Nel 2009, per un articolo dedicato ad un centro sociale, fu preso di petto dall’allora vice sindaco di Milano De Corato e si trova a dover pagare 20.000 euro, non 100.000. «Il Manifesto» ha quindi lanciato un appello perché il giornalista non dispone di una somma simile. Non in tutti giornali, infatti, girano stipendi con cifre elevate.

Cento mila euro sono un’enormità. È giusto togliere di mezzo il carcere ma andrebbe anche ripensata l’idea di portare a simili livelli le conseguenze dell’attività giornalistica, senza nulla togliere alla gravità della diffamazione che è un reato molto pesante.

In secondo luogo, vorrei sottolineare la necessità di eliminare le misure interdittive dalla professione, che nel testo scaturito dalla Commissione ritengo sia francamente eccessivo. Si sostituisce all’iniziativa autonoma dell’ordine professionale, lo si trasforma in un braccio armato, una polizia del pensiero senza autonomia, perché tutto è già previsto.

Terzo punto. Sono passate alcune norme francamente inquietanti sul tema della Rete. Sono norme da brivido, frutto di un emendamento di un senatore, che non pensavo neanche venisse preso seriamente in considerazione, perché veramente strampalato.

Invece è passato e si introduce per la prima volta nel nostro ordinamento la previsione di far togliere in modo autoritativo dai siti internet e dai motori di ricerca, immagini o dati di cui si voglia inibire la diffusione. Siamo sulla stessa asticella della Cina, dell’Iran e della Corea del Nord.