Islam, ideologie e rivoluzioni nell’era di Facebook: “L’innocenza dei musulmani”

di Vito Laterza
Pubblicato il 24 Settembre 2012 - 06:41| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA

La recente ondata di proteste che continua a investire i Paesi del mondo islamico rimette in discussione il modello di analisi adottato per la lettura degli eventi di politica internazionale. Come è cominciato tutto e perché? Quali gruppi e organizzazioni sono responsabili per le sommosse e gli attacchi contro gli obiettivi americani? Come si dovrebbe gestire questa crisi che porta a una rapida e imprevedibile escalation della violenza fisica e verbale? Queste sono le domande ricorrenti che, però, potrebbero non essere quelle giuste.

L’imputato numero uno – il cosiddetto film anti-Islam – altro non è che un video di 14 minuti che ha inondato massicciamente il web. I dettagli della sua realizzazione e della sua produzione non sono noti. Le teorie della cospirazione, pertanto, continueranno a moltiplicarsi e ad ispirare reporter-segugi sguinzagliati alla ricerca della vera identità dei produttori, del regista e del cast.

La ricerca dei “responsabili” del film gira a vuoto, perché nel momento in cui alcuni contenuti che circolano su Facebook o in altri social network diventano “virali”, non ci si chiede chi e perché li abbia fatti girare. Se questi contenuti stimolano i nostri pensieri e provocano le nostre emozioni, interagiamo con essi in qualche maniera. Possono piacerci o non piacerci, a volte li commentiamo, magari li condividiamo con altri amici.

Qualcosa di simile è accaduto con il trailer di “Innocence of Muslims”, solo che questa volta le azioni provocate sono andate ben oltre i confini del mondo virtuale. Cosa provoca in noi una reazione nei confronti dei contenuti che troviamo sul web? Perché così tante persone stanno reagendo in maniera virulenta contro questo video?

Gli eventi recenti dimostrano il ruolo cruciale che gioca nella quotidianità la profonda affezione della gente rispetto a particolari immagini, simboli, messaggi e idee. Spesso questo fenomeno è liquidato come debolezza emotiva ovvero effetto collaterale di una comunità allargata fatta di esseri umani, che può essere corretto e gestito con lo sviluppo di solide istituzioni democratiche.

Nella visione dominante dell’Occidente, la realtà sociale – nonostante la sua complessità – è formata da individui, gruppi e istituzioni con identità ben definite che perseguono consapevolmente interessi specifici e agiscono sulla base degli stessi. Per molti politici e analisti, queste sono le coordinate che contano per una comprensione approfondita degli eventi politici.

Questo punto di vista, però, trascura un fatto importante: nella realtà “vera” là fuori, i messaggi, le idee, le emozioni e le reazioni si diffondono in maniera virale, proprio come nei nostri ambienti virtuali. Le identità contemporanee sono multiple e frammentarie. È fuor di dubbio che esistano gruppi e istituzioni che provano a orientare le azioni collettive e mobilitano risorse militari, economiche e sociali per perseguire i propri interessi. Ci sono anche miliardi di persone, come per esempio gli utenti di Facebook, che continuano a spostarsi dentro e fuori i gruppi, i movimenti sociali, le azioni e le proteste. A volte appoggiando una causa e altre volte la causa opposta, senza ragioni particolari che spieghino in maniera chiara queste contraddizioni. Il mondo di oggi non è “razionale”.

Non riusciremo mai a capire fino in fondo le proteste contro il video anti-Islam se cristallizziamo la nostra attenzione soltanto sui gruppi terroristi e sui predicatori islamici fondamentalisti come “istigatori” delle masse per perseguire i loro obiettivi anti-democratici. Questa spiegazione serve a noi cittadini dell’Occidente “liberal-democratico” per farcene una ragione. Vogliono persuaderci che se catturiamo i leader delle proteste e assicuriamo aiuto a questi paesi affinché adottino le stesse istituzioni democratiche di casa nostra, tutto sarà risolto.

Questi messaggi sono totalmente scollegati dalla realtà, oppure sono vere e proprie menzogne per distrarre l’attenzione dal fatto che i leader politici occidentali non hanno nessun controllo su questi eventi.

Osserviamo attoniti masse di persone che stanno invadendo le strade e le piazze in questi giorni con messaggi anti-americani, negli stessi Paesi dove abbiamo salutato fino a pochi mesi fa ribellioni collettive contro dittatori e regimi autoritari, durante quella che è stata definita la “primavera araba”.

Non possiamo separare questi eventi, sono parte della stessa realtà. Non possiamo facilmente distinguere tra i desideri di “democrazia” delle persone che si sono ribellate contro i tiranni di turno e le illusioni “fondamentaliste” delle masse accecate dalla retorica infiammata di alcuni leader.

Sarebbe come cercare di organizzare la nostra attività su Facebook in un modello lineare che spiegherebbe in maniera chiara e precisa chi siamo e per chi voteremo alle prossime elezioni. Molto probabilmente falliremmo nell’impresa. A volte intratteniamo pensieri e azioni contraddittori, non ci fermiamo a riflettere, lo facciamo e basta. In questo senso, il comportamento degli Stati Uniti non è molto più razionale del nostro.

Obama e il suo entourage hanno fatto grandi sforzi per spiegare che gli Stati Uniti e i suoi rappresentanti sono estranei alla produzione e/o distribuzione del film, condannato da Hillary Clinton come “disgustante e deplorevole”. Al tempo stesso, il Presidente cercava di rassicurare gli americani mandando navi da guerra verso la Libia dopo gli attacchi all’ambasciata di Bengasi.

In verità, questa non è una lotta tra gli interessi degli Stati Uniti e del suo apparato militare da un lato, e quelli dei fondamentalisti e degli “insorti” islamici anti-americani dall’altro. Almeno non nel senso comune del termine. Spesso pensiamo a questi interessi come la dimensione primaria della realtà sociale. L’immaginario collegato a queste lotte, che circola nella forma di video, libri e altri media, è visto come un derivato dei conflitti materiali per la conquista di potere e di risorse. Forse un tempo era così, oggi, invece, viviamo in un mondo diverso, un mondo in cui la produzione di immagini e simboli determina chi siamo, cosa facciamo nelle nostra quotidianità e le nostre azioni politiche.

Per dirla con termini più crudi, Facebook rappresenta la realtà “vera”, mentre quella “fisica” diventa una estensione dei nostri mondi virtuali. Da questa prospettiva, le reazioni dei contestatori hanno più senso: rabbia e preoccupazione sono nate nel mondo “virtuale” e poi loro le hanno portate in piazza.

Questo non significa che i fattori materiali non contino. È chiaro che povertà, corruzione, sfruttamento, repressione militare e colonialismo sono tutte realtà che hanno influenzato negativamente la quotidianità dei contestatori. Eppure, è stata una reazione viscerale al video che ha fatto esplodere questi sentimenti repressi. In questo caso le immagini e i contenuti che girano nel mondo virtuale producono la realtà materiale e non il contrario.

La reazione americana segue tendenze simili. Le proteste sono scoppiate l’11 settembre, l’anniversario del tragico attacco alle Torri Gemelle. I rappresentanti americani stanno rispondendo a questo assalto simbolico, ben oltre le implicazioni materiali dell’uccisione scioccante di un ambasciatore e della minaccia fisica al corpo diplomatico americano nei Paesi islamici.

Navi da guerra e marines vengono inviati quali latori di un messaggio netto e chiaro: l’attacco non avrà successo, i sentimenti e le idee della “nazione americana” non saranno ostacolati dall’inaccettabile violenza fisica e verbale.

Simboli e immagini non seguono le logiche del razionalismo illuminista che stanno alla base della democrazia liberale. I significati delle narrazioni immaginarie non sono mai precisi, si mischiano in combinazioni strane e imprevedibili, provocando in noi un senso di mistero e di confusione.

Non ci sono confini chiari nell’immaginazione dei contestatori che distinguano le ambasciate americane da quelle di altri paesi occidentali. Non ci sono geografie leggibili che relegano le proteste al “mondo arabo”. I talebani hanno attaccato una base britannica in Afghanistan in risposta al video anti-Islam, così come migliaia di persone hanno protestato pacificamente a Londra in reazione allo stesso contenuto. Non esiste una cospirazione, e per questo non ci sono obiettivi facilmente identificabili come “responsabili” di questi attacchi.

La via militare non è una strategia razionale per combattere un nemico invisibile – e Obama questo lo sa. Viene utilizzata per mostrare i muscoli, come un simbolo, parte della stessa lotta, della stessa politica delle emozioni che nutre la furia dei contestatori. Il Presidente statunitense deve rassicurare i suoi cittadini sulle sue inequivocabili doti “americane”, alla vigilia delle elezioni presidenziali.

Questi sono fenomeni che vanno al cuore della nostra società globale. Non accadono soltanto oltre i confini delle democrazie occidentali, né sono peculiari di una regione e del conflitto ideologico tra l’occidente cristiano e l’Islam.

Paragoni interessanti: le modalità spontanee con le quali decine di migliaia di giovani hanno sovvertito l’ordine sociale per cinque giorni con sommosse e saccheggi nelle principali città inglesi, nell’agosto 2011; i drammatici attacchi contro gli africani stranieri in Sudafrica nel maggio 2008, che si sono diffusi con violenza e molto rapidamente.

Sono contesti diversi, simboli diversi e battaglie diverse. Ciò nonostante, in tutti e tre i casi, lo scoppio della protesta collettiva non ha attori politici ben definiti. Questi eventi mettono insieme interessi, intenzioni e motivazioni diversi e a volte in conflitto tra loro, che non possono essere spiegati con una singola e coerente narrazione dei fatti.

Prima di poter comprendere e gestire questi eventi “razionalmente”, c’è il bisogno di esplorare modalità nuove e più efficaci per osservare queste dinamiche e comprendere a fondo come stanno influenzando la nostra quotidianità.

 

Vito Laterza ha scritto questo articolo per Al Jazeera (in inglese) e per Blitzquotidiano. Laterza ha completato il dottorato in Antropologia Sociale all’Università di Cambridge ed è attualmente Research Fellow alla University of the West of England. All’estero dal 2000, segue le vicende italiane “a distanza”, in un’ottica geopolitica globale. Si occupa principalmente di questioni politiche, economiche e socio-culturali in Africa e in Occidente.