Prostitute: tassa e legalizzazione, meglio che sulle bibite

di Pino Nicotri
Pubblicato il 29 Agosto 2012 - 12:19| Aggiornato il 17 Marzo 2015 OLTRE 6 MESI FA

Tassare le bibite gasate e ancor più i superalcolici, come voleva fare per quest’ultimi Giulio Tremonti già due anni fa? Partire con i 27 articoli del decreto Balduzzi? Ma non sarebbe molto meglio legalizzare davvero la prostituzione riconoscendola come professione (ora in Italia non costituisce reato, ma lo sono tutte le attività connesse, come quella dei ruffiani) e sottoporla a tassazione? Moralismi inutili e ipocriti a parte, come le proposte di multare o processare i loro clienti, la prostituzione è un’attività ineliminabile, esiste da sempre e – bene o male che sia – esisterà sempre. A volte è stata considerata un’attività sacra, esercitata in appositi templi dedicati alla propria dea. La Repubblica Serenessima di Venezia con le tasse delle “nostre benemerite meretrici” contribuiva ad armare la sua flotta, compresa quella che prese parte a una crociata. Il Vaticano le considerava un “male necessario” e le aveva classificate in ben 14 categorie, la più costosa delle quali era detta “femina curialis” perché solo i cardinali della curia avevano i quattrini necessari per permettersi il lusso di portarsele a letto. Veniamo all’oggi e facciamo un po’ di conti.

Le stime sono ardue, se non impossibili, comunque le più prudenti parlano di 70 mila prostitute che in Italia esercitano regolarmente la professione. Il giro d’affari c’è chi lo stima tra i 2,2 e i 5,6 miliardi di euro l’anno, ma c’è chi sospetta si arrivi addirittura a 50-60 miliardi. Una tassa del 20% porterebbe almeno in teoria alle casse dello Stato da un minimo di quasi mezzo miliardo di euro fino a un imponente massimo di 12 miliardi. Oltretutto, mettere ordine in questo settore e renderlo trasparente significherebbe facilitare la lotta alla prostituzione minorile, calcolata nel 20% del totale, e alla tratta, le cui vittime sono calcolate in 19-26 mila donne. Significherebbe anche evitare che le “lucciole” stiano in strada, cosa che suscita sempre scandalo almeno nelle mamme.

Ogni tanto si legge di volenterose iniziative della Guardia di Finanza, che mira alla sostanza e chiede di spiegare tenori di vita lussuosi da parte di ragazze che figurano come disoccupate nullatenenti. Ma non si sa come siano poi finite queste iniziative, dopo la prova delle commissioni tributarie e di abili e costosi avvocati.

Legalizzare la professione della prostituta è cosa ben diversa dal riaprire la “case chiuse, i famosi casini messi fuori nel 1953, perché non si tratta affatto di legalizzare nuovamente il suo sfruttamento. Non a caso ci sono sette Paesi europei civili almeno quanto il nostro – Austria, Paesi Bassi, Belgio, Germania, Grecia, Lettonia e Ungheria – che hanno già provveduto a legalizzare e normare in vari modi il “mestiere più antico del mondo”.

A parte il fatto che oggi fare la escort o lavorare nel porno non scandalizza più neppure i bambini e i preti, c’è da dire che le prostitute non ammazzano nessuno, contrariamente alle guerre e ai progettisti, produttori e commercianti d’armi, dalle pistole alle bombe H. Settori nei quali però la voce di Santa Madre Chiesa non s’è mai fatta sentire, è rimasta e rimane muta. In compenso, si è fatta sentire la voce dell’arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe, che s’è scagliato contro il sindaco Luigi De Magistris colpevole di avere ventilato l’idea di creare i “quartieri a luci rosse”. Teniamo presente che il 48% dei napoletani è favorevole al modello di quartiere del sesso in funzione ad Amsterdam. Una quindicina di anni fa c’era chi pensava, anche in Comune, di istituire a Milano il quartiere a luci rosse nella zona dell’Isola in crisi di spopolamento, e presentai l’iniziativa con un articolo su L’Espresso. Il progetto prevedeva perfino luoghi di culto per le diverse religioni, ma non se ne fece egualmente nulla.

La voce di Sepe segue di poche settimane quella del cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, che ha ammonito i politici cattolici ad essere più presenti e attivi in politica e che “sui princìpi non si può trattare”. Un’affermazione diametralmente opposta a quella che è la politica in un Paese civile, tant’è che se lo dicessero e facessero davvero anche i politici non cattolici si finirebbe fatalmente alla guerra civile. Guelfi e ghibellini, as usual, ma oggi anche ben altro.

Il decreto Balduzzi promette un giro di vite, cioè un aumento del prezzo, per i tabacchi. E perché non istituire una assicurazione obbligatoria per i fumatori esattamente come si fa con le automobili per mettere chi le guida in grado di pagare eventuali danni? È vero che il costo dei tabacchi è, come i carburanti, in massima parte già costituito da tasse, le famose accise, ma è anche vero che si usa dire che in Italia a causa del fumo muoiono ogni anno 70-80 mila persone (6 milioni nel mondo), 30 mila delle quali per tumore ai polmoni, senza contare il resto delle malattie, dalle bronchiti agli enfisemi. Scrivere sui pacchetti “Il fumo uccide” è solo un espediente inutile, oltre che ipocrita, un modo di lavarsene le mani e usarle per intascare i soldi dei fumatori. Tutto ciò si traduce in un danno sociale ed economico enorme: milioni di ore di lavoro perse e troppi milioni se non miliardi di euro di spesa pubblica sanitaria. Spesa che a fronte dei decessi per tumori all’apparato respiratorio risulta oltretutto inutile. Se invece il fumatore fosse obbligato a pagare un’assicurazione sulla salute e sulla vita ne risulterebbe un gettito capace di coprire almeno il danno economico. Il costo dell’assicurazione potrebbe essere caricato già sul costo delle sigarette, dei sigari e del tabacco da pipa, magari con apposite marche da bollo che il fumatore potrebbe essere obbligato a conservare, per esibirle al momento del ricovero, onde evitare il boom del contrabbando, anche se ovviamente non si possono negare ricoveri e cure a chi evitasse di pagare l’assicurazione comprando sigarette di contrabbando. Il dramma è che in Italia il contrabbando non è molto combattuto…

Deve essere comunque chiaro che fumare oltre che un vizio è un lusso troppo grande: il fumatore lo paga semmai in termini di salute, ma lo fa pagare all’intera società in termini di costi sanitarie danni al lavoro.

Purtroppo il Bel Paese si muove solo a buoi scappati dalla stalla o dopo che qualche magistrato ha preso provvedimenti clamorosi. Che “Il fumo uccide” lo leggiamo su tutti i pacchetti di sigarette, e come sappiamo pare che uccida ben 70-80 mila persone l’anno. Ma non ci sono interventi di magistrati come quello che per molto meno a Taranto ha messo in mora addirittura gli stabilimenti dell’Ilva, obbligando finalmente il governo a intervenire. E i mille morti l’anno stimati dal Codacons a Milano per le sole auto diesel? Anche qui, nessun magistrato interviene e quindi il governo e il Comune non fanno nulla o fanno poco. Anzi: le auto e i camion inquinano? Ecco l’idea che lo si possa fare tranquillamente pagando una bella tassa. Come dire che si può sparare nella folla oppure lancire sassi in testa alla gente purché si paghi una tassa in base al calibro della pistola o al peso del sasso…

Il discorso lo si potrebbe allargare ai morti sul lavoro e per incidenti sulle strade, che forse sono altri nostri pessimi record europei. Certo un Paese non può essere governato a colpi di sentenze e sequestri ordinati dai magistrati. E allora? E allora dovrebbero farlo i politici. Ma per farlo ci vorrebbe la politica….