LONDRA – Come annunciato, il Labour, il partito laburista britannico, sfiducia il suo leader, Jeremy Corbyn. Con 172 voti a favore e 40 contro, il leader venuto dalle fila della sinistra radicale interna eletto a furor di popolo solo nove mesi fa è stato invitato ad andarsene. Ma il voto non è vincolante, e Corbyn è deciso a sfidarlo, appellandosi agli iscritti a costo di certificare la spaccatura totale nella maggiore forza di opposizione britannica. Il tutto a nemmeno di una settimana dal referendum sulla Brexit e nel bel mezzo della bufera scatenatasi sul Partito Conservatore di governo con l’annuncio delle dimissioni del premier David Cameron.
Una situazione di cui i laburisti, in crisi di consenso da anni, avrebbero potuto cercare di approfittare, se non avessero preferito decidere di regolare piuttosto conti aperti fra loro, in una frattura che è anche fra la nomenklatura e la base.
A Corbyn, 67 anni, irriducibile deputato socialista del quartiere londinese di Islington, chiamato a sorpresa al timone della barca laburista dopo il disastro elettorale del maggio 2015 con oltre il 60% dei consensi dei militanti (un record), i colonnelli della Camera dei Comuni e i circa 20 componenti del governo ombra che lo hanno scaricato contestano lo scarso appeal nell’elettorato più vasto. E la campagna referendaria “troppo tiepida” condotta a loro giudizio in favore dell’Unione europea (Corbyn ha un passato euroscettico contro “l’Unione dei mercati e delle banche”).
In realtà la posta in gioco è un’altra: le dimissioni di Cameron potrebbero aprire la strada a elezioni politiche anticipate nel regno e gli ammutinati di Westminster non credono di poterle vincere con Corbyn. Alcuni, anzi, a cominciare dagli orfani ‘lib-lab’ di Tony Blair, non le vorrebbero nemmeno vincere, quand’anche fosse possibile, con una piattaforma di sinistra pacifista e anti-austerity.
Ma se il ‘compagno Jeremy’ e’ assediato nel palazzo, i suoi avversari sono assediati dalla piazza. Almeno da quella piazza che sventola ancora le bandiere rosse e che (dagli attivisti del gruppo Momentum a tutte le maggiori sigle sindacali) continuano a sostenere il leader. In migliaia si sono radunati dinanzi a Westminster contro “i traditori” e Corbyn, affiancato da un pugno di fedelissimi, ha promesso loro che non intende mollare. “E’ un fatto di democrazia, tradirei chi mi ha eletto”, ha detto e ripetuto sfidando i contestatori.
La giornata ha avuto toni roventi nella riunione del gruppo parlamentare. Uno dei ribelli, Ian Murray, ha chiesto di “riattaccare i cani alla catena”, riferendosi agli attivisti pro-Corbyn. Altri pare abbiano bollato la piazza come “teppaglia”. Ma il segretario ha finora respinto anche inviti più concilianti a dimettersi: se i congiurati presentano una candidatura alternativa, è disposto ad affrontare un altro voto: ma fra gli iscritti, non nel “sinedrio dei notabili”, ha tuonato.
I rivoltosi preferirebbero invece evitare la conta popolare: forse in nome di una soluzione più unitaria, forse nel timore di perderla. Due nomi emergenti “meno divisivi” di ‘Jeremy il rosso’ potrebbero essere in ogni caso il vice leader Tom Watson e Angela Eagle, esponente di una sinistra interna più soft appena dimessasi da ministro ombra per le Attività Produttive. Ma non è detto che abbiano il consenso sufficiente, se si andasse a un testa a testa.
D’altronde non e’ chiaro quanto Corbyn possa resistere con l’80% dei deputati del partito contro di lui. E se non bastasse il caos interno, ecco arrivare anche la denuncia di Pat Glass, deputata corbyniana e neoministro ombra dell’Istruzione, che ha detto oggi di non volersi ricandidare in parlamento dopo essere stata minacciata di morte per il suo impegno referendario pro-Ue. Un rischio difficile da sottovalutare dopo l’uccisione della sua collega Jo Cox per mano di un estremista di destra, nel nord dell’Inghilterra, appena due settimane fa.