La fine di un sogno durato 5 mesi: la caduta della Repubblica Romana

di Viola Contursi e Roberta Rizzo
Pubblicato il 5 Maggio 2010 - 08:30 OLTRE 6 MESI FA

Postazione romana a San Pietro in Montorio (Museo centrale del Risorgimento, Roma)

(Segue dalla seconda puntata)

La notte tra il 29 e il 30 giugno del 1849 iniziò poi l’ultima battaglia. Quella che avrebbe portato alla fine del sogno garibaldino della Repubblica romana. Le parole di Giovanni Costa spiegano meglio di qualsiasi altro racconto il sentimento che nutrì la gioventù italiana per soli 5 mesi:

“La difesa di Roma contro i francesi dovea essere la sanguinosa affermazione della volontà e del diritto degli italiani a risorgere a nazione libera ed indipendente. E tale scopo venne magnificamente raggiunto. Il fiore della gioventù italiana, combattendo e morendo alle mura di Roma, consacrò tale volontà e tal diritto. Giammai, in tutte le successive guerre per l’indipendenza, la gioventù italiana combatté con maggior valore. L’eroismo, in quella disperata estrema difesa di Roma, era divenuto per tutti comune abitudine”.

Garibaldi stesso lo ammise più tardi dal suo ritiro a Caprera: “Ho sempre avuto sotto il mio comando dei bravi ragazzi; ma nessun ha raggiunto in valore quelli che furono con me nel ’48 e nel ’49”.

I francesi, ormai entrati dentro le mura, si divisero in due parti: un’ala dell’esercito attaccò i volontari da destra, presso villa Spada al Gianicolo (dove oggi sorge l’ambasciata d’Irlanda presso la Santa Sede). A difendere villa Spada c’erano i bersaglieri Lombardi guidati da Luciano Manara. Furono intense ore di battaglie che terminarono con la vittoria dei francesi e il ferimento a morte di Manara.

L’altra ala dell’esercito francese, intanto, attaccò le truppe di Garibaldi in quello che fu l’ultimo quartier generale di Garibaldi: la chiesa di San Pietro in Montorio. Lì avvenne l’ultima battaglia. L’ultimo strenuo tentativo dei volontari di difendere il proprio sogno, quello di una Roma libera dal potere papale e dagli invasori, una città con dei diritti e delle libertà democratiche.

Fu proprio lì, nella splendida chiesa di San Pietro in Montorio che si consumò l’ultimo vagito della Repubblica romana. I francesi conquistarono Roma e in poco tempo venne restaurato il potere papale, Pio IX potè tornare sul suo trono. Di quell’ultima battaglia rimane una palla di cannone incastrata sul lato sinistro della chiesa e il Mausoleo ossario gianicolense, dove sono conservate le ossa dei volontari morti in quelle battaglie, per difendere la Repubblica. Tra di loro c’è anche la tomba di un giovane poeta di appena 21 anni, aiutante in campo di Garibaldi, che venne ferito il 3 giugno a villa Corsini e morì di cancrena un mese dopo. Il suo nome era Goffredo Mameli e la sua canzone, “Fratelli d’Italia”, che poi diventerà l’Inno dell’Italia unita, veniva cantata dai volontari garibaldini proprio durante le battaglie di quel lontano 1849.

Il busto di Goffredo Mameli sul Gianicolo (Roma)

A mezzogiorno del 1º luglio fu stipulata una breve tregua per raccogliere i morti e i feriti. All’Assemblea Costituente Mazzini dichiarò che l’alternativa era tra capitolazione totale, battaglia in città (con conseguenti distruzioni e saccheggi).

La mattina del 2 luglio Garibaldi tenne, in piazza San Pietro, il famosissimo discorso: “io esco da Roma: chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me … non prometto paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne avrà”. Diede appuntamento per le 18.00 in piazza San Giovanni, trovò circa 4.000 armati con ottocento cavalli e un cannone e, alle 20.00, uscì dalla città. Cominciò così una lunga marcia, passata attraverso l’Umbria e proseguita verso la Val di Chiana ed Arezzo. Lungo il percorso Garibaldi vede venire meno la speranza di sollevare le province e decise di tentare di raggiungere Venezia assediata.

Il suo immediato oppositore, generale d’Aspre, che si trovava comandante delle truppe di occupazione in Toscana e dell’esercito toscano, in via di riorganizzazione dedicò alla caccia dei forse 2.000 superstiti della colonna una armata di circa 25.000 fanti, 30 cannoni e 500 cavalli. finché non costrinse Garibaldi a trovare rifugio, il 31 luglio nella neutrale Repubblica di San Marino. Da qui Garibaldi tentò l’ultima marcia, scendendo a Cesenatico, ove catturò una flottiglia di battelli da pesca e si imbarcò per Venezia. Intercettati dalla flotta austriaca i fuggitivi si dispersero: molti, fra i quali Basilio Bellotti, Ciceruacchio con il figlio Lorenzo, appena tredicenne, Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, vennero catturati e fucilati dagli Austriaci, che occupavano la Romagna.

Durante la fuga, favorita dall’aiuto delle popolazioni locali, Garibaldi vide morire la moglie Anita ma, assistito da innumerevoli partigiani e patrioti da Comacchio, con un lungo giro per l’Italia centrale, ritornando verso ovest, attraverso Forlì, Prato e la Maremma giunse nei pressi di Follonica. Da qui si imbarcò per la Liguria, parte del Regno di Sardegna, ove poté mettersi in salvo.

(Continua con la quarta puntata)